Ora che Netflix, dopo tanti anni di silenzio, rispolvera la storia del primo processo a Muccioli e ai suoi collaboratori nella docu-serie “ SanPa: Luci e Tenebre di San Patrignano” mi è stato chiesto un parere sulla vicenda.
Dapprima ho resistito, perché è dal giorno in cui è morto Vincenzo Muccioli che non scrivo più di quel fatto.
La vicenda SanPa è stata certamente per me un momento importante della mia crescita professionale, ma anche doloroso.
Avevo iniziato ad occuparmi di Muccioli e del suo Cenacolo, a metà strada fra medicina naturale e forme spiritistiche e parapsicologiche, nell’estate del 1980, molto prima del fattaccio delle catene. Avevo incontrato chi aveva introdotto Vincenzo come medium nel Cenacolo, il signor Luciano Rossi che abitava all’angolo di via Aponia, anche lui medium, poi estromesso dallo stesso Cenacolo.
La segnalazione veniva da un collaboratore di primo piano uscito dal gruppo e che aveva denunciato alla Procura fatti che secondo lui portavano a ben altri interessi rispetto alla conclamata solidarietà laica di cui il Cenacolo voleva essere espressione.
Che attraverso Muccioli parlassero personaggi che, in un crescendo wagneriano, si chiamavano “il dotto”, “Pasteur”, “San Francesco” e addirittura il “Raggio Cristico” non deponeva a suo favore nella mia mente decisamente razionale di giovane giornalista. L’inizio, insomma, non fu dei migliori.
Qualche anno dopo tornai sulla vicenda, a causa del processo. Il direttore del settimanale “ilPonte” era purtroppo impegnato in una dura lotta per la sua salute. Mi ritrovai dunque anche a far supplenza in un momento estremamente difficile. Decisi di seguire il processo personalmente e di raccontare quel che ne emergeva, senza commenti. Questo modo di procedere era già scomodo per un’opinione pubblica già molto orientata da una campagna stampa in gran parte a favore di Muccioli.
Presto fu chiaro che il confronto non era più sugli elementi oggettivi (la piccionaia e gli altri luoghi dove i ragazzi erano stati ritrovati reclusi e incatenati), ma se fosse lecito ogni metodo, anche violento, per contenere chi aveva scelto la morte con la ‘strega eroina’.
Erano anni drammatici, con tanto spaccio e tante vittime anche nei parchi pubblici, tanti i giovani coinvolti. Le uniche risposte venivano dal mondo cattolico, con molti preti impegnati in prima persona e alla guida di strutture (don Picchi, don Ciotti, don Mazzi, don Rigoldi, don Gallo…). A Rimini erano attivi don Benzi e la Papa Giovanni e il Cmas (poi Sert, oggi Ser.D. e Dipartimenti delle Dipendenze) con la cooperativa Centofiori da cui nacque la comunità di Vallecchio. La scelta era quella delle piccole comunità a misura di ragazzo, capaci di contenere, senza violenza, ma con una presenza solidale chi, nel momento della crisi di disintossicazione, faceva più fatica.
In realtà SanPa, quando accaddero i fatti drammatici che portarono al processo, non era ancora una comunità di massa, come poi accadde nel periodo successivo. In quel primo momento non erano tanti i ragazzi accolti e forse le cause di quelle contenzioni non erano proprio quelle su cui dopo si sviluppò il confronto in aula.
Confronto che divenne ben presto duro, con attacchi ai giudici (e forse molti non lo sanno ma il giudice Righi vinse a Milano la causa che, successivamente al processo, intentò a Montanelli, allora direttore de “il Giornale”) e a chiunque si impegnasse anche soltanto a raccontare i contenuti che emergevano nel processo. Tutta la grande stampa nazionale aveva già scelto il finale del processo.
Finalmente la lotta alla droga aveva un campione laico. Il processo si concluse equamente. A Rimini Muccioli e alcuni collaboratori furono condannati per sequestro di persona e maltrattamenti, ma la comunità venne salvata (come aveva già chiesto il giudice istruttore Andreucci e poi il PM Sapio). In appello a Bologna Muccioli fu assolto.
Ma la violenza doveva ancora avere una sua vittima e questa fu nel 1989 Roberto Maranzano. Per questo caso Muccioli fu condannato, nel 1994, a 8 mesi per favoreggiamento (pena sospesa) per aver coperto l’assassinio del ragazzo da parte di Alfio Russo nella porcilaia.
Anche in questo episodio l’opinione pubblica si divise: chi difendeva Muccioli a spada tratta e chi lo riteneva complice di un omicidio, per il fatto di aver coperto gli assassini. Al di là delle responsabilità del fondatore di SanPa per un delitto avvenuto in comunità, in discussione finirono nuovamente i metodi usati a San Patrignano per il recupero dei tossicodipendenti. L’anno successivo, il 19 settembre 1995, Muccioli morì, stroncato da un male incurabile.
Chi era dunque Muccioli, “Padre, padrone un poco santone”come aveva intitolato “il Ponte” la sua seconda inchiesta sul personaggio, il 28 settembre 1980, un mese prima del fattaccio delle catene.
Padre lo fu, certamente, per migliaia di giovani, che dopo l’esperienza dell’eroina cercavano un riferimento sicuro, un’ancora di salvezza. Quest’omone grande, dalla voce potente e dagli occhi penetranti, con una personalità carismatica ne ha salvati tanti, qualunque fosse il motivo per cui aveva iniziato l’avventura sull collina di Ospedaletto. Questo è un dato di fatto.
Padrone e santone li lasciamo al proseguo dell’analisi storica, come pure il suo primo metodo, così tanto discusso.
In questi anni SanPa ne ha fatta di strada.
Le intuizioni più forti del suo fondatore si sono sviluppate e sono state studiate in tutto il mondo, in particolare quella che il lavoro dovesse essere parte integrante del percorso di recupero (oltretutto diventava poi strada più solida per il ritorno nella società).
Ora “ la comunità San Patrignano si dissocia completamente dalla docu-serie messa in onda da Netflix”: “ Il racconto che emerge – spiegano in una nota – è sommario e parziale, con una narrazione che si focalizza in prevalenza sulle testimonianze di detrattori, senza che venga evidenziata allo spettatore in modo chiaro la natura di codeste fonti ». La paura espressa è che quel prodotto televisivo nuoccia oggi alla Comunità e ai suoi oltre mille ospiti: “ Siamo molto preoccupati per gli effetti negativi e destabilizzanti che potrebbero ricadere sull’oneroso lavoro di recupero, reinserimento e prevenzione, ai quali la comunità San Patrignano è con dedizione da decenni impegnata”.
Indubbiamente, per certi aspetti, il documentario di Netflix riapre certe ferite che 40 anni di impegno potevano aver in qualche modo sanato. Pur essendo ricchissimo di documentazione, non sembra aggiungere nulla di nuovo a ciò che già si conosceva. Rischia solo di rinfocolare dibattiti che non appartengono più al presente, e guai se non fosse così.
Onestamente credo che proprio nessuno oggi voglia compromettere l’ulteriore cammino di una comunità che ha certamente imparato dai suoi errori.