La Romagna, così come la maggior parte del nostro Paese, ha una ricchissima tradizione contadina. Un mondo, quello contadino, che da sempre è stato in grado di mettere in pratica la preziosa “arte dell’arrangiarsi”, del mettere a frutto quel poco che si ha, dell’ottenere ricchezza dalla povertà.
È in un contesto del genere che nasce una specifica tecnica di tintura che utilizza… la ruggine. Dall’osservazione del fatto che la ruggine, una volta macchiato un capo d’abbigliamento o di biancheria, è molto difficile da eliminare, si è arrivati alla consapevolezza della possibilità di utilizzarla non solo come macchia, ma come vero e proprio ornamento. Nasce così, infatti, la tintura a ruggine. Tecnica di cui non si conosce l’esatto luogo di origine, ma che sappiamo essere molto diffusa nella Romagna del Quattrocento.
A compiere una preziosa ricerca su questo argomento è il nuovo libro curato da Gino Valeriani, ricercatore riminese già autore di diversi lavori legati alla memoria storica del territorio romagnolo.
Con Tele color ruggine – Dalla filatura alla tessitura, Valeriani racconta l’attività passata e presente degli stampatori-tintori di tele colorate a ruggine nei territori di Montescudo e Monte Colombo, attraverso gli scritti di diversi autori del territorio. Scritti tra i quali troviamo quello di Oreste Delucca, che analizza le origini di questa specifica tecnica di tintura e ne rintraccia la presenza nella Rimini del Quattrocento. Ne riportiamo un estratto.
Alla ricerca delle origini “Le tradizioni non hanno una data di nascita precisa. Qualunque usanza, per affermarsi e diventare tradizione, ha necessariamente alle spalle una lunga consuetudine, maturata nel silenzio e senza attestazioni formali.
Parlare di date sarebbe una sciocchezza; si può tutt’al più parlare approssimativamente di un periodo, legandolo a fattori storici, economici, sociali, di costume, di ambiente. […] Così è per le tele stampate a ruggine, la cui ‘invenzione’ non ha né un padre, né un luogo, né un momento accertato o accertabile. […]
La prima considerazione induce a riconoscere la semplicità e al tempo stesso la genialità di questa ‘invenzione’, tipico frutto del mondo contadino, caratterizzato da scarse risorse economiche, ma dalla capacità di mettere a frutto quel poco o addirittura quel nulla che si ha. E subito viene da pensare alla scintilla che ha prodotto l’intuizione iniziale: senz’altro l’osservazione di un fatto naturale, L accidentale.
Verosimilmente tutto è nato da una fastidiosa macchia di ruggine su un capo d’abbigliamento o di biancheria, così resistente ai lavaggi, praticamente incancellabile; perché non riproporre intenzionalmente quella macchia trasformandola in segno, in disegno, in ornamento?
Con l’esperienza il processo ha avuto la sua evoluzione, si è perfezionato, utilizzando sempre materiali a portata di mano, a chilometro zero e praticamente a costo zero: ferri arrugginiti certamente non difficili da reperire; e per collante un poco di farina di grano impastata con aceto di vino, sovrabbondante in ogni vecchia cantina, dove una fermentazione imperfetta delle uve faceva inesorabilmente infortire i vini ai primi caldi. E, per facilitare il fissaggio del colore, l’uso del ‘ranno’, antico lavaggio fatto con l’acqua bollente e la cenere che si accumulava in qualunque camino”.
Le “coperte da buoi” “Quali i soggetti raffigurati più spesso? Senz’altro i motivi dell’ambiente contadino, con prevalenza di elementi vegetali ed animali. O i soggetti di carattere religioso, particolarmente quelli riferiti ’i santi protettori, con una specialissima devozione per Sant’Antonio, ‘il protettore delle bestie’.
E fra tutte queste ultime, l’attenzione più forte era indubbiamente rivolta ai bovini. Fin dagli ultimi secoli del Medioevo, una agricoltura essenzialmente fondata sulla coltivazione del grano, spodestando boschi e prati aveva ridotto al minimo la presenza del bestiame, specie quello di grossa taglia.
Una coppia di buoi aratori arrivava a costare quanto una casa; la loro esistenza era cosa preziosa, la loro salute una preoccupazione continua; onde le preghiere a Sant’Antonio, che si materializzavano anche nella consuetudine di ammantare gli animali, in occasione delle feste, con le tradizionali ‘coperte buoi’, a scopo propiziatorio oltre che ornamentale.
Senza escluderne la funzione protettiva nei mesi freddi dell’inverno. Per essere chiamate espressamente in quel modo e non essere scambiate per comuni coperte da letto, dovevano contenere senza meno qualche richiamo specifico: il nome o la raffigurazione del santo protettore? Con tinta di ruggine o altra tecnica? Non sappiamo.
Sappiamo però che le coperte da buoi rappresentano le più antiche testimonianze della stampa a ruggine. E d’altra parte sappiamo che la presenza di coperte da buoi è documentata negli inventari delle case contadine fin dal Quattrocento”.
Nella Rimini del Quattrocento Una norma dello Statuto Comunale di Rimini, redatto nel 1334 e vigente in tutto il territorio, imponeva alle mogli rimaste vedove di fare compilare l’inventario dei beni mobili di casa entro cinque giorni dalla morte del marito. Si voleva in tal modo evitare la sottrazione di beni, per difendere gli interessi dei figli minori e degli eventuali creditori.
Fra gli inventari compilati nella seconda metà del Quattrocento e giunti fino a noi, quattro recano menzione di coperte da buoi: – 1476 ottobre 23. Nell’inventario fatto redigere da Benvenuta del fu Antonio Bertoci da S. Giustina, vedova di Antonio Samperoli di S. Giustina, figurano due coperte da boi. […] – 1495 dicembre 1.
Nell’inventario fatto redigere da Ottaviana del fu Giacomo Baldi da Valdilamone, vedova di Giacomo del fu Alessandro, detto Scannavino, di S. Giustina, sono presenti do choverte da boi de panne de line. – 1500 marzo 4.
Nell’inventario fatto redigere da Caterina del fu Guido, vedova di Gregorio Saresini di Coriano abitante a Montetauro, è documentato uno pare de coverte da boi assieme due ferri da perticaro.
Le suddette coperte da buoi potevano essere decorate a ruggine, ma non ne abbiamo le prove; rimane (e forse rimarrà per sempre) un’ipotesi credibile, nulla di più. Merita casomai sottolineare alcuni interessanti dettagli contenuti nell’inventario del 1495 riguardo la descrizione delle due paia di bovi.
È storicamente risaputo che la coppia dei buoi aratori veniva formata abbinando due esemplari di differente forza e corporatura, giacché erano chiamati a svolgere un compito diverso. […] A questo riguardo, un tempo si utilizzavano di solito due animali di razza diversa, uno di colore rosso e l’altro di color boneilo (ossia bianchiccio). Il citato inventario (al pari di tanti altri) registra puntualmente questa situazione, affermando che il primo paio è formato da un bove di pelo rosso, chiamato ‘el roxo’ e da un bove di pelo bianco, chiamato ‘el bonello’”.