Le cronache degli ultimi quindici giorni ci raccontano ripetutamente di suicidi di giovanissimi e giovani, in Italia ed anche nel nostro territorio.
Putroppo per i giovani, il suicidio è una delle prime cause di morte insieme agli incidenti stradali. Sembra il segno di un profondo disagio giovanile: ragazzi che già si arrendono davanti alle sfide della vita, quando tutto è appena iniziato.
È questa la realtà?
Ne parliamo con Osmano Oasi, professore associato alla Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica, docente di Elementi di Psicopatologia dei contesti di vita a Milano e di Psicologia dinamica a Milano e Brescia.
Che differenza c’è tra il suicidio di un preadolescente e il suicidio di un giovane? “Ci sono aspetti comuni e diversi. In entrambi i casi il suicidio non è sempre e solo determinato da un evento stressante in presenza di gravi disturbi mentali o da esperienze traumatiche quali gli abusi sessuali. Può rappresentare anche un’estrema richiesta di aiuto rispetto a un disagio legato alla grande fatica di crescere in un ambiente, famigliare, scolastico, sociale, spesso avverso.
Nel contesto attuale, tutti, ragazzi e adulti, siamo posti di fronte a richieste sociali molto alte e pressanti, che facciamo fatica a soddisfare. Ne scaturisce spesso un senso di indegnità e inadeguatezza rispetto a quello che ci si immagina che gli altri si aspettino da noi o che noi stessi pretendiamo di fornire. Il senso di vergogna porta a voler scomparire dalla scena”.
I motivi della vergogna variano a seconda dell’età?
“Il preadolescente sta nascendo socialmente, si affaccia al mondo sociale con un corpo in trasformazione e un senso di sé nascente che potrebbero non mantenere le promesse dell’infanzia: non sarò il grande pianista, non ho un fisico da ballerina, non sono popolare nel mio liceo, non sono lo studente super brillante… Per il ragazzo che è in queste condizioni emotive, sono sufficienti piccoli episodi di vergogna: basta un brutto voto di fronte al gruppo classe per scatenare l’impulso a scomparire.
L’ostacolo insormontabile è rappresentato proprio dal senso di inadeguatezza del ragazzo oppure da quella figura l’insegnante, il compagno – che sancisce la sua completa inadeguatezza. Non resta che dichiararsi falliti e rinchiudersi in un isolamento e uno sconforto totale da cui, in taluni casi, si esce togliendosi la vita.
Più avanti, il giovane adulto si confronta, invece, con le difficoltà insite nella realizzazione dei propri piani lavorativi, dei propri progetti sentimentali: spesso si accorge che quello che ha costruito non porta a nessuna realizzazione; ma per il gruppo, la società, la famiglia è vietato fallire, pena l’esclusione e il bando sociali.
Crescere e diventare adulti richiede uno sforzo e un coraggio che non tutti posseggono: significa abbandonare i sogni infantili e riformulare i progetti sulle proprie reali capacità e non sulle aspettative degli altri. Chi non riesce si ripiega su di sé, bloccato, sente di non esistere“.
E le istigazioni della rete?
“Le possibili istigazioni in rete sono da verificare. Lo svergognamento sui social può avere per un ragazzo o adulto un effetto dirompente. La propria immagine è diffusa in modo esponenziale, incontrollabile, proprio in quello spazio pensato dall’adolescente per elaborare la propria immagine positiva: uno spazio che non è fantasia e non è realtà. Oggi faccio il selfie della nuova pettinatura per ricevere i like. Non è come presentarsi nell’atrio della scuola con il nuovo taglio.
Costruisco la mia identità in rete. Un tempo c’era La Smemoranda, un laboratorio condiviso di costruzione di pensieri e di immagini di sé. La Smemoranda ci rappresentava. Ora il cartaceo è stato sostituito dalla pagina Instagram. Una violazione di questo spazio, essere deriso e sbeffeggiato in rete, è molto doloroso, può diventare un fattore di rischio, di istigazione a scomparire e non solo sul social”.
Chi sono i ragazzi a rischio suicidio? Ci sono campanelli di allarme, che non vanno ignorati, “Chi si suicida non arriva improvvisamente a questa decisione, di solito ci sono segnali di allarme, purtroppo aspecifici, che si colgono più facilmente a posteriori: a volte un distacco, un ritiro, una chiusura, un minore investimento, un umore incupito; altre volte prevale invece la tendenza a esternare i conflitti col diverbio, la violenza fisica, la brutalità; non si controlla la frustrazione. In alcune situazioni, i ragazzi arrivano a dirlo, magari nel corso di un litigio: “Me ne vado, sarebbe meglio che non ci fossi, facciamola finita”. Comunicano la loro intenzione, come dicevamo, in una sorta di estrema richiesta di aiuto. Il motto “chi lo dice non lo fa” non è sempre vero in questi casi. Tra i due estremi, le situazioni più ambigue sono quelle in cui il ragazzo apparentemente sta abbastanza bene, non esibisce comportamenti esagerati o di eccessiva chiusura; ma, in condizioni di stress, ha sviluppato una sorta di dissociazione, una indifferenza per il proprio corpo che può attaccare e eliminare, nell’illusione di lasciare sopravvivere una parte di sé che sta meglio, senza pensare che da questo gesto non c’è ritorno”.
Lucia Carli