Nel 1620 si documenta il patrimonio dei libri lasciati alla città di Rimini tre anni prima da Alessandro Gambalunga, scomparso nel 1619. Quei volumi ci parlano ancora oggi, raccontando la storia di una famiglia e di una comunità.
Iniziato il 3 settembre e completato il 17 novembre 1620, l’inventario della biblioteca, redatto dal notaio Mario Bentivegni, registra 1.438 volumi contenenti poco meno di duemila opere a stampa.
Assisteva al lavoro Michele Moretti, che reggerà la biblioteca per trent’anni, dal 1619 al 1649.
La preziosa tesi di laurea di Silvia Pratelli(1991) ci consente una conoscenza approfondita e particolareggiata del nucleo originario della biblioteca, come osserva il professor Piero Meldini, direttore gambalunghiano dal 1972 al 1998. Preziosa è definita questa tesi anche in un recente articolo milanese (su la Biblioteca di Via Senato, 2019), a proposito della scelte di Gambalunga che sembrano “ obbedire non solo e non tanto agli interessi e ai gusti di un uomo colto e intellettualmente curioso qual era, quanto piuttosto “ alla previsione di un uso non esclusivamente privato della raccolta”.
La famiglia Gambalunga e i beni tramandati Alessandro Gambalunga nasce a Rimini nel 1564 da un ricco commerciante di ferro, Giulio, figlio di un maestro muratore lombardo passato alla mercatura, e di Armellina Pancrazi, di famiglia nobile, terza fra le quattro mogli del padre. Alessandro sposa nel 1592 Raffaella Diotallevi, figlia di Giovanni Battista. I suoi beni sono da lui lasciati ad Armellina Gambalunga, figlia del fratello Francesco e di Lucrezia Serafini. Francesco nasce da Ginevra Bartolini, la seconda delle quattro mogli di Giulio Gambalunga. Alessandro è forse figlio della terza moglie del padre Giulio, Armellina Pancrazi.
L’erede Armellina (o Ermellina) Gambalunga nel 1603 sposa il bolognese Cesare Bianchetti (1585-1655) con cui genera nove figli. Armellina scompare nel 1638.
Delle sei femmine, cinque entrano nella vita religiosa: sono Cecilia, Maria Maddalena, Camilla, Lucrezia, Alessandra e Costanza (che sposa Simone Bistrigari). I tre maschi sono Giorgio (che sposa Anna Maria Ratta), Giulio e Giovanni (divenuto poi abate).
Giulio da Ottavia Pavoni ha il figlio Alessandro e da Marina Diplovatazi in seconde nozze nel 1654 ha Giulio Cesare, marito di Anna Teresa Balducci nel 1675 ed erede ufficiale dei beni del ceppo gambalunghiano.
Ultimo discendente del ramo bolognese, è Giulio Sighizzo Bianchetti marito di Gertrude Albergati, morto nel 1761.
Il Comune di Rimini diventa unico proprietario della Biblioteca e del palazzo Gambalunga con transazioni che vanno dal 1802 al 1847, come ricordava Luigi Tonini.
La Biblioteca e il Comune riminese Nel testamento datato 25 settembre 1617, Alessandro Gambalunga dichiara che i suoi libri “ s’habbino meglio e più lungamente conservare, poiché concerne pubblico commodo, utile et honore”. La sua libreria dovrà essere aperta a tutti e quindi passa al Comune, ci sarà un bibliotecario (“ persona di lettere idonea ed atta”) stipendiato con i propri soldi e nominato dai Consoli della città. Altra somma egli destina per nuovi libri ed il restauro di quelli vecchi. Il 9 agosto 1619 nomina il bibliotecario, un dottore in legge suo amico, Michele Moretti, che diventa pure amministratore dei suoi beni. Il palazzo in cui si trova la biblioteca è stato da lui costruito tra 1610 e 1614. Il 12 agosto 1619, Alessandro Gambalunga scompare lasciando 1.438 volumi. Moretti resta in carica sino al 1649.
Nel 1583 a circa trent’anni egli si è laureato in Diritto civile e canonico a Bologna. La sua famiglia rappresenta il miracolo economico di quegli anni, un “ felice momento” della città “ confermato dagli svolgimenti nell’edilizia privata”, ovvero le residenze dei nobili e dei notabili, e “ dalla cura posta dalle autorità pubbliche nei restauri al porto, ai ponti, alla fontana”, nel riassetto viario e nell’apertura di nuove strade (G. Gobbi e P. Sica. «Rimini», 1982).
La Gambalunga è l’unico tentativo riuscito per aprire una biblioteca pubblica, e la prima della nostra regione, secondo G. Montecchi (1977).
Come disse nell’aprile 2000 a Rimini il professor Ezio Raimondi, Gambalunga precorre il mecenatismo moderno. Era intervenuto quale presidente dell’Istituto Beni Culturali di Bologna all’inaugurazione della mostra documentaria ”Vedere il tempo”. La passione civile che ha sempre guidato il ”lettore” Raimondi in tutta la sua grande carriera di studioso e di docente, lo portò a sottolineare come una biblioteca debba far riflettere sul destino comune, e ad entrare in contatto con il diverso. ”E chi è oggi il diverso?” significativamente si chiese alla fine.
Il “primato bibliotecario” di Rimini La prima biblioteca pubblica d’Italia fu anch’essa a Rimini, nel convento dei frati di San Francesco di Rimini, a fianco del Tempio malatestiano. Il suo progetto risale al 1430, per iniziativa di Galeotto Roberto Malatesti, che segue un’intenzione dello zio Carlo (morto l’anno prima).
Sigismondo dona ad essa “moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline”, come scrisse Roberto Valturio (”De re militari”, XII, 13). Nel 1475 Roberto Valturio lascia ad essa la propria biblioteca personale. Nel 1490, la biblioteca francescana è trasferita dal piano terra a quello superiore del convento, come ricorda una lapide in latino. Nel 1452 a Cesena si apre la Biblioteca Malatestiana. Seguono quella patriacale di San Domenico a Bologna (1464), e quelle di Piacenza (1509), Parma (1523), e Ferrara (inizio 1500).
L’Angelica di Roma è del 1604, l’Ambrosiana di Milano del 1609.
La fine della biblioteca francescana di Rimini è avvolta nel mistero. Nel 1560 un inventario conta ”circa” 273 volumi. Monsignor Giacomo Villani (1605-1690) annota: quelle carte preziose finiscono in mano ai salumai. Federico Sartoni (1730-1786), sostiene invece che i frati vendettero la libreria alla famiglia romana dei Cesi, alla quale appartengono i fratelli Angelo (vescovo di Rimini dal 1627 al 1646) e Federico, fondatore dell’Accademia dei Lincei nel 1603. Aldo Francesco Massèra (bibliotecario gambalunghinano dal 1909 al 1928) incolpa i Conventuali riminesi d’aver lasciato “ disperdere le ricchezze raccolte” (1928). I frati vendettero liberamente la libreria alla famiglia romana dei Cesi, come pare sostenere Sartoni? Forse essi furono costretti non dico dal vescovo romano, ma dalle loro misere condizioni (che risultano da molti documenti).
Antonio Montanari