Giornalista di lungo corso, saggista e romanziere, nonostante il nome faccia pensare a origini nordiche, è riccionese doc. Il mestiere di raccontare lo ha portato in America Latina.
Attualmente vive a Buenos Aires, in Argentina. Qui ha conosciuto Papa Francesco, quand’era ancora e solo Vescovo. Oggi Metalli affronta anche la realtà del Coronavirus nella villa dove abita, ancora drammatica.
Alver Metalli, partiamo da lontano, cioè da vicino. Come è finito in America Latina?
“Lo devo al lavoro. Il primo trasferimento della mia vita, dopo quello universitario a Bologna, è stato a Roma per lavorare al settimanale Il Sabato che iniziava le pubblicazioni. Stiamo parlando dell’agosto 1978, l’anno dei tre papi tanto per offrire un riferimento. Che poi è anche il titolo del primo articolo che scrissi per Il Sabato. Il terzo dei tre papi di quell’anno a cui alludo è Wojtyla, che come Giovanni Paolo II ha iniziato il suo pontificato proprio con un viaggio in America Latina, a Puebla in Messico, per incontrare i vescovi del continente e inaugurare la terza conferenza generale dell’episcopato latino-americano. Il Sabato era molto attento a quello che succedeva in questa parte del mondo e così viaggiai in piena insurrezione sandinista in Nicaragua nel luglio del 1979, e di lì in Salvador per l’assassinio di monsignor Romero. Questi sono i primi passi che mi legano al continente americano. E ad ambienti di grande povertà.
Però il presentimento che in America Latina ci sarei rimasto l’ho avuto nel 1982, quando ho accompagnato don Giussani in un viaggio in tre paesi: Brasile, Argentina e Cile. Quel viaggio in un certo senso mi consegnò a questo continente”.
Le sue prime esperienze in campo professionale sono state in A/74 e radio Riviera a Rimini. Cosa ricorda di quei tempi “eroici”?
“Eroici, ha detto bene. Quello che ricordo è proprio la passione, l’entusiasmo, le battaglie culturali e civili di quegli anni.
Non c’è bisogno che ricordi che siamo in pieno post-68. La legge sul divorzio è del 1970, quella sull’aborto è del 1978, con la carica divisiva che ha avuto nel mondo cattolico. Nel 1978 viene anche assassinato Aldo Moro, solo per richiamare un episodio che rende il clima di quegli anni. Anche nelle scuole di Rimini – allora facevo le superiori – il clima era di ebollizione, la società era attraversata da tensioni molto forti, lo era la cultura, la politica. L’extra parlamentarismo era forte nel riminese egemonizzato dal Partito Comunista, e anche i movimenti fiancheggiatori della lotta armata erano attivi. Erano delle grandi provocazioni per me, cattolico da poco che si affacciava al mondo del giornalismo, radiofonico e scritto”.
Poi Comunione e Liberazione, l’esperienza ecclesiale in cui si è formato, e il Meeting di Rimini. Che importanza ha avuto per lei la manifestazione d’agosto di Cielle?
“Il Meeting è immediatamente successivo alla nascita del settimanale Il Sabato, e partecipa della stessa spinta verso il mondo, verso l’umano nel mondo per essere più precisi. Si alimenta di scoperte, di incontri, di corrispondenze tra esperienze, di battaglie per la libertà e la giustizia che avvenivano nell’Est europeo, in America Latina, in Indocina e in Africa. E Il Sabato era un luogo di osservazione e di incontri privilegiato in questo senso”.
A Buenos Aires è stato vescovo Papa Francesco, lei lo ha conosciuto.
Che ne pensa della Chiesa cheb Bergoglio porta nel cuore e nella mente?
“Si è scritto molto, moltissimo sul Papa, il suo presunto progetto di riforma della Chiesa e della curia vaticana, e non tutto di buona qualità. Tra i libri che secondo me colgono a fondo chi è Bergoglio Papa segnalo quello di Lucio Brunelli pubblicato di recente da San Paolo, Papa Francesco come l’ho conosciuto io.
Per rispondere alla domanda su quale Chiesa voglia Bergoglio, senza nessuna presunzione di completezza e guardando a quello che ho visto negli anni in cui l’ho conosciuto a Buenos Aires, paradossalmente la sua immagine sintetica di Chiesa la vedo sintetizzata in una espressione che non ha mai usato, a memoria mia, da vescovo in Argentina. Ma che era nei fatti. Quella della Chiesa ospedale da campo è una immagine coniata ex-novo da Bergoglio una volta eletto Papa. L’espressione l’ha usata per la prima volta nel secondo anno di pontificato. A raccoglierla è stato il direttore di La Civiltà Cattolica, un gesuita come lui, padre Antonio Spataro.
In un passaggio dell’intervista, si riferì alla Chiesa come a un ospedale da campo dopo una battaglia. «È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto.
Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso».
Cioè una Chiesa vicina alla gente, ai suoi problemi nel vivere, nel morire, nel progettare il proprio domani”.
Come procederà la sua modifica della Chiesa e della Curia?
”Dalle persone che ci lavorano.
Francesco è gesuita, e alla pari di Ignazio la sua visione della riforma della Chiesa è quella di riformare le persone dal di dentro. Lo fa notare opportunamente in questi giorni padre Antonio Spadaro facendo un bilancio di sette anni di pontificato e chiedendosi se ancora ha spinta propulsiva. Risponde che chi si immagina un Papa che costruisce una road map di riforme istituzionali, elaborate con spirito progettuale, funzionalistico e organizzativo rimarrà deluso. Come pure non gli torneranno i conti se proietta i contenuti di tale mappa sul procedere del pontificato, per giudicarlo alla luce di tali criteri.
Spataro dice giustamente che il Papa, piuttosto, «ha nel discernimento la chiave dello sviluppo e del dinamismo – attualmente ben attivo del suo ministero». Un altro punto del suo bilancio di Bergoglio riformatore che condivido è quando dice che “non ha idee preconfezionate da applicare al reale, né un piano ideologico di riforme prêt-à-porter, ma avanza sulla base di un’esperienza spirituale e di preghiera che condivide passo passo nel dialogo, nella consultazione, nella risposta concreta alla situazione umana vulnerabile. Dunque, il suo «progetto» è, in realtà, un’esperienza spirituale vissuta, che prende forma per gradi e che si traduce in termini concreti, in azione. Per cui quella visione interiore non si impone sulla storia cercando di organizzarla secondo le proprie coordinate, ma dialoga con la realtà, si inserisce nella storia – a volte paludata o fangosa degli uomini e della Chiesa, si svolge nel tempo”.
Lei è anche autore di romanzi. Il giorno del giudizio, scritto con il vaticanista Lucio Brunelli, è un vatican thriller. Un aereo si schianta sulla Cappella Sistina mentre è in corso il Conclave. Speriamo solo fantasia e non profezia… “Naturalmente lo scenario catastrofico de Il giorno del Giudizio è pura fantasia, com’è fantasioso il finale, alquanto enigmatico, di un futuro Papa cinese. Invece di un cinese, nel frattempo, è venuto un latino-americano. Ma con Lucio potremmo aver anticipato di troppo gli eventi, chissà che forse, il prossimo papa… In seguito, ho scritto due romanzi: Isidora e Morte di un benzinaio di provincia, quest’ultimo pubblicato ad agosto da San Paolo, e che risente di questi anni vissuti in una situazione di marginalità”.
Come ha affrontato e affronta l’Argentina la pandemia?
“Non ne siamo ancora usciti, anzi, siamo in piena peste, come la chiamano nella villa. Le file davanti ai punti di distribuzione del cibo si allungano ancora, come i giorni di quarantena che si stanno avvicinando ai 200. Non si vede ancora la luce alla fine del tunnel.
Nella villa dove vivo ormai da sette anni anche adesso mentre rispondo a queste domande, è un momento estremamente grave, con una enorme espansione di casi e con una situazione gravissima sul piano sociale. Oltre 3000 persone vengono a mangiare tutti i giorni nei diversi punti che abbiamo aperto nella villa, senza contare le case per anziani, ragazzi drogati, alcolisti, le case di isolamento, che stanno funzionando per persone a rischio. I circuiti del cartone rimangono chiusi e chi viveva della raccolta, i cartoneros come vengono chiamati in Argentina, non vanno in giro a raccattarli per venderli. Anche chi viveva di lavoretti, tagliare l’erba nel giardino di qualche casa, verniciare un cancello o qualche facciata, svuotare uno scantinato, prestare le braccia a giornata per un trasloco, non ha richieste. I venditori ambulanti che battevano le strade della villa hanno posteggiato i loro truck di latta colorata, gli autisti di quartiere con le loro auto a noleggio aspettano chiamate che non arriveranno, le donne che friggevano patate e piade di mais agli angoli delle strade hanno spento i fornelli. I manovali, molti provenienti dal Paraguay, passano le giornate con le mani conserte. L’economia ‘informale’ è ferma, il microcircuito di compravendita che manteneva in vita la popolazione della villa è interrotto. Nutrirsi diventa un assillo quotidiano”.
Quale percezione ha avuto da riccionese emigrato, del Coronavirus in Italia e in particolare nel riminese?
“In Italia ho tanti amici, a Riccione ho la mia famiglia, genitori e sorella. Il giorno in cui il governo argentino ha decretato la quarantena, il 20 marzo, ho telefonato a mio babbo per sapere come stava. Ha 97 anni e tutta la sua vita è trascorsa a Riccione. Si avvicina al momento del grande viaggio senza scossoni, e questo del Coronavirus non gli fa paura. Manifesta pena di me, mi pensa indaffarato ad occuparmi degli altri e quindi più in pericolo di quanto non lo sia il resto della popolazione argentina. Mi chiama figlio, «figlio mio». Non l’ha mai fatto. Poi, con il respiro affaticato, va con il pensiero alla seconda guerra mondiale, quando era appena ragazzino. «Ci nascondevamo dai tedeschi figlio mio, per non essere presi e portati in Germania a lavorare, ma adesso, da questo, non possiamo nasconderci». È il suo modo di stabilire una comparazione, di prendere le misure a questo killer invisibile che è il Covid-19”.
Saremo migliori, saremo peggiori, non cambierà nulla. Sul dopo crisi esistono tutte le ricette possibili.
Metalli, che ne pensa?
“Anche su questo punto la mia percezione è quella che ho cercato di trasmettere nel libro Quarantena. C’è chi immagina come sarà il nuovo mondo, cosa non faremo più allo stesso modo e cosa cambieremo per sempre artefice la paura. Ma la paura che incombe sull’esistenza individuale e collettiva può essere questa spinta al cambiamento? Può veramente produrre degli effetti duraturi nel costume degli uomini scossi dalla prima pandemia globale della storia? La paura passa, la minaccia alla vita come la conosciamo passerà con essa, e il pendolo tornerà al suo posto, concludendo la sua oscillazione vicino, molto vicino al punto in cui l’ha iniziata”.