Nella cavea del Parco della Musica le nove sinfonie proposte dall’Orchestra di Santa Cecilia con la direzione di Antonio Pappano
ROMA, 24 luglio 2020 – Doveva essere, e lo è ancora, l’anno del duecentocinquantenario dalla nascita di Beethoven. Con l’inevitabile corollario di concerti commemorativi, non sempre esenti da una certa dose di retorica celebrativa. Il blocco degli spazi al chiuso, però, ha fatto prendere ai festeggiamenti tutt’altra piega, ridimensionando vertiginosamente i programmi delle principali istituzioni musicali.
Per fortuna che il Parco della Musica, oltre alle tradizionali sale in cui si tengono i concerti dell’Accademia di Santa Cecilia, può contare anche su una grande cavea all’aperto, oltre tutto di apprezzabile acustica. Così il direttore musicale Antonio Pappano ha potuto proporre le nove sinfonie – il lascito di Beethoven forse più monumentale e, di sicuro, il più amato dal pubblico – scaglionandole in un intervallo di tempo compreso fra il 9 e il 24 luglio. Inutile dire che le maggiori aspettative erano per il gran finale, culminato nell’esecuzione della Nona, in virtù della popolarità di cui gode questa partitura, rafforzata dal fatto di essere divenuta l’inno europeo (durante l’esecuzione campeggiava la proiezione della bandiera blu con la corona di stelle gialle).
Pappano ha guidato un’esecuzione dove contrasti e tensioni sembrano stemperarsi in una progressione melodica e una cantabilità che, se da un lato, fa emergere tutta la bellezza delle sonorità, dall’altro ridimensiona quell’incalzare ritmico che, in Beethoven, gioca un fondamentale ruolo espressivo. Il risultato è quello di attenuare la potenza drammatica della musica e smorzare gli echi della lotta titanica, legata ai limiti della natura umana, che affiora continuamente sottotraccia: la Nona sinfonia, del resto, può essere considerata il testamento morale di un compositore convinto che alla musica fosse affidato il compito di rendere l’uomo migliore. L’assenza di contrapposizioni, nella lettura di Pappano, è apparsa evidente soprattutto nel rapporto fra la brillantezza dei due movimenti iniziali e il lirismo del terzo: così il primo (‘allegro ma non troppo’) e il secondo (‘molto vivace’) sembravano accomunati da un’eccessiva omogeneità d’intenti all’‘adagio molto e cantabile’ che contraddistingue il terzo.
È invece nel quarto movimento – seppure lo ‘scherzo’, di bellezza ineguagliabile grazie anche alle sue originalissime soluzioni timbriche, apparisse un po’ disinnescato – che Pappano si è sentito più a suo agio, imprimendo ai quattro solisti e al coro, ancor più che all’orchestra, un andamento fluido e al tempo stesso incalzante. Ai versi tedeschi di Schiller (non si capisce perché non sia stata proiettata la traduzione di An die Freude, visto che era disponibile lo schermo), e ai loro significati legati alla fratellanza, hanno dato voce i coristi dell’Accademia – preparati come sempre da Piero Monti – apparsi forse meno compatti del solito: un prezzo da pagare alle loro posizioni ben distanziate, lungo i gradini della cavea. Al coro si è aggiunto un quartetto solistico complessivamente di buon livello. Il compito d’iniziare tocca al baritono: qui era Vito Priante, corretto ma forse un po’ sottodimensionato; ben a fuoco il tenore Saimir Pirgu e molto brave le due interpreti femminili: Maria Agresta, soprano capace di svettare con sicurezza sull’orchestra, e Sara Mingardo, d’impeccabile eleganza e precisione nei brevi interventi del mezzosoprano. Tutti e quattro ben sostenuti da Pappano: direttore che, con i cantanti, dà quasi sempre il meglio di sé.
Giulia Vannoni