Al Circo Massimo l’opera di Verdi prodotta dal Teatro dell’Opera di Roma: direzione di Daniele Gatti e regia di Damiano Michieletto
ROMA, 20 luglio 2020 – Un esperimento riuscito. Del resto in tempi di pandemia le regole imposte agli spettacoli sono talmente rigide – sia per chi sta sul palcoscenico sia per il pubblico – che è necessario adottare soluzioni radicali. È il caso della programmazione dell’Opera di Roma, che ha rinunciato alla tradizionale sede del Teatro Costanzi, come pure a quella estiva delle Terme di Caracalla, per trasferirsi al Circo Massimo: monumentale spazio dal fascino unico, al cui interno è stato creato un palco di 1500 metri quadrati che consente ai cantanti di non venire mai a contatto fra loro, e capace di accogliere ben 1400 spettatori accuratamente distanziati.
Naturalmente non avrebbe avuto senso concepire il Rigoletto, che ha inaugurato questa atipica stagione, con gli stessi criteri che valgono per un tradizionale teatro al chiuso. Così il regista Damiano Michieletto ha costruito uno spettacolo multimediale, dove anche l’inevitabile microfonazione di cantanti e orchestrali rientrava nelle regole del gioco, senza procurare eccessivo fastidio.
Sul gigantesco schermo che sovrasta il palco vengono così, di volta in volta, proiettati i primi piani degli interpreti: le immagini s’interpolano con sequenze girate in precedenza e in grado d’illuminare piccoli dettagli non sempre immediati da cogliere nel libretto, che chiariscono invece le ragioni di alcuni personaggi e dei loro comportamenti (struggenti le visioni del mare dove, agli occhi di Rigoletto, Gilda finisce per identificarsi con la madre morta). In questo modo la dimensione onirica s’intreccia con quanto avviene su una scena, che Michieletto – peraltro – ha completamente rivisitato.
La cornice è anni settanta (a suggerirla bastano gli abiti e una serie di macchine d’epoca disseminate sul palco) con protagonisti che hanno subito vistose trasformazioni: Rigoletto è divenuto un giostraio un po’ losco, preoccupato soprattutto di tenere allegri i propri clienti; il Duca è un malavitoso simile a certi borseggiatori d’autobus che, mentre sfarfalla da una donna all’altra, regala a tutte sontuosi anelli; e la giovane Gilda, segregata dal padre, appena può, scappa in discoteca – altro che tempio, di cui si parla nel libretto – dove ha conosciuto e si è innamorata del Duca.
Nell’insieme, la definizione delle psicologie risulta molto accurata, complice anche la bravura degli interpreti. Roberto Frontali disegna un Rigoletto torvo e livido, ambivalente nei rapporti con i suoi clienti – che in sostanza disprezza – e nell’ossessivo amore per la figlia. Una variante drammaturgica scandisce il deflagrare della tragedia innescato dalla maledizione di Monterone: alla fine del primo quadro costui verrà ucciso, salvo poi ritornare ovviamente nel secondo atto, con un’apparizione che sembra evocare il fantasma di Banco (complice una sottolineatura musicale ben avvertibile in orchestra). Il giovane tenore peruviano Iván Ayón Rivas non ha forse maturato a sufficienza la vocalità del Duca – molto convenzionale la sua interpretazione di Parmi veder le lacrime – ma ha comunque costruito un personaggio accattivante: tanto superficiale, quanto animato da buone intenzioni. Rosa Feola unisce ottime qualità di attrice a una notevole presenza vocale: spiritosa nel riprendere velocemente i dimessi abiti quotidiani al rientro dalla fuga clandestina in discoteca; coraggiosa, volitiva e sempre sicura nel canto nell’affrontare la morte al posto del suo amato. Più deludente – per limiti di volume – lo Sparafucile di Riccardo Zanellato: un energumeno che deruba i clienti della procace sorella Maddalena, il mezzosoprano Martina Belli, più incisiva sul piano fisico che vocale. Molto bravi i comprimari, a cominciare dal Monterone di Gabriele Sagona (perché non far interpretare a lui Sparafucile?), per continuare con il Ceprano di Matteo Ferrara e il Marullo di Alessio Verna, senza dimenticarsi, infine, di sottolineare i ragguardevoli mezzi di Irida Dragoti, la custode Giovanna.
Presi dalle immagini, quasi non si presta attenzione all’Orchestra del Teatro dell’Opera, molto ben guidata da Daniele Gatti, che ha impresso alla musica tempi – almeno per lui – insolitamente veloci. Questo non ha impedito al direttore di concedersi alcune raffinate sfumature e di sfruttare l’amplificazione per effetti altrimenti impossibili, come far iniziare al baritono in pianissimo Sì, vendetta, innescando così una progressione drammatica oltremodo suggestiva. Di quelle che è possibile ascoltare solo in disco.
Giulia Vannoni