Non ce la possiamo fare. Verrebbe da dire così, con un po’ di scoramento, assistendo alle discussioni infinite sulla riapertura delle scuole a settembre.
Non ce la possiamo fare se continuiamo a discutere di date probabili e improbabili senza fissare un punto certo. Non ce la possiamo fare se ancora in Parlamento si sbatte la scuola a destra e a sinistra come una questione “secondaria” rispetto alle beghe tra maggioranza e opposizione, tra voti di fiducia, pasticci sul numero legale, incertezza condita di accuse e controaccuse che naturalmente nulla hanno a che vedere con le questioni educative (che pure dovrebbero essere sommamente care al Paese e ai suoi governanti).
Non ce la possiamo fare se la possibile riapertura delle scuole è ancora in forse tra doppi turni, mascherine in classe, distanziamento tra i banchi e chi più ne ha più ne metta. E con questo scenario di fondo, ecco in primo piano le altrettante discussioni infinite sulla maturità che si sta consumando in questi giorni, con la retorica del ritroviamoci a scuola, dell’esame “senza abbracci”, con le dichiarate amarezze di studenti e anche professori che lamentano di aver perso “l’anno più bello”, i momenti più emozionanti come quelli della conclusione di un ciclo di studi che è simbolicamente e, per certi versi, molto concretamente un punto di svolta decisivo nella vita di tanti giovani. Senza dimenticare, peraltro, che è stata fatta una fatica immane per garantire le commissioni d’esame, visti i forfait – tutti giustificati, naturalmente – dei possibili commissari e presidenti.
No. Non ce la possiamo fare se non cominciamo a prendere davvero sul serio la scuola, magari allargando lo sguardo alle altre nazioni vicine a noi, dove il problema dei ragazzi in classe è stato affrontato con maggior cipiglio. Senza entrare nel merito delle misure, ma almeno considerando che le decisioni vengono prese perché il passaggio del rientro di tutti a scuola è condizione per il ritorno alla normalità.
In buona sostanza, bisognerebbe uscire dall’empasse in cui siamo precipitati, tra paura, esigenze di sicurezza, risorse limitate (già, esiste anche questo problema non da poco) e litigiosità endemica di chi ha responsabilità politiche e non riesce a trovare percorsi comuni anche su un terreno che per eccellenza dovrebbe essere condiviso.
L’emergenza continua, questo è il fatto.
Vorremmo trasformare il “non ce la possiamo fare” in un rassicurante “ce la faremo” (mantra che ha accompagnato il tempo del Covid), ma adesso è tempo di fatti e non di slogan
Alberto Campoleoni