Non capita tutti i giorni ad un professore e intellettuale di finire trasposto in un libro, un best seller mondiale diventato anche un film. L’onore toccò a Paolo Fabbri. Umberto Eco lo inserì ne Il nome della rosa, con il nome di Paolo da Rimini, fondatore della biblioteca, con il soprannome di “Abbas Agraphicus”, abate senza scrittura.
D’altra parte il riminesissimo Fabbri era legato da un rapporto di profonda amicizia con Eco con cui aveva insegnato semiotica all’Università di Firenze negli anni ’60, e con il quale dividerà la definizione di pioniere della semiotica.
Precorritore della disciplina che studia i segni e il modo in cui questi abbiano un senso, professore alla Sorbona di Parigi, notissimo in Francia, sua patria d’adozione, stimato nel resto del mondo, Paolo Fabbri era riminesissimo, e ancorato alle sue radici. Sempre pronto a scendere in campo per la sua città e per il suo figlio illustre Federico Fellini. Al regista, Fabbri ha dedicato studi e saggi, l’ultimo risale al 2019. Si occupa della Fondazione dedicata a FF (2011-2013) e lavora per la pacificazione postuma tra il regista e i riminesi.
“Credo che Rimini abbia fatto pace con Fellini. – ha detto in una intervista sul finire del 2019 – C’è stata una svolta rispetto al passato.
Più in generale, e penso anche al Teatro Galli e alle altre operazioni in campo culturale, la città ha preso coscienza che la cultura non è solo indispensabile per formare le persone. Con la cultura si può anche mangiare. E qui è venuto fuori lo spirito di Rimini: quando ci mettiamo in testa di fare una cosa, non siamo secondi a nessuno”.
Di idee in testa, Fabbri ne ha avute “tante, anzi parecchie” e anche molto diverse tra loro. Coinvolto dall’amico Mario Guaraldi, si fece coivolgere negli ultimi sussulti con payette del MystFest di Cattolica (1995 e 1996), innalzando muri di libri da demolire per una lettura democratica, e incoronando come madrina Valeriona Marini mentre il festival si interrogava sulla maschera.
A Bologna, quando insegnava al Dams di via Guerrazzi (lo ha fatto dal 1977 al 2002) era dirimpettaio di Eco. Nei primissimi anni Ottanta, nell’aula A insegnava l’autore di Apocalittici e Integrati, che aveva appena pubblicato il Lector in Fabula, Il Nome della Rosa e cinque voci dell’Enciclopedia Eìnaudi. “Nell’aula C a destra, invece, c’era Paolo Fabbri che allora non aveva mai scritto un libro e che metteva in atto una semìotìca diversa: – racconta Stefano Bartezzaghi – meno attenta alle proprie ascendenze e più portata a spendersi sull’immediato, talvolta sull’istantaneo. Le due aule dirimpettaie erano un modello didattico felicissimo: nel confronto, la materia insegnata non faceva in tempo a cristallizzarsi in certezze non infrangibili né a svaporare in nebbie dense e profumate”.
Amava l’insegnamento che aveva bisogno di un pubblico piccolo e di tanto tempo, tanto da meritarsi da Eco l’appellativo di “Abbas Agraphicus” nel Nome della Rosa, perché pur essendo di letture onnivore un particolare morbo gli impediva di scrivere.
“In realtà – spiega ancora Bartezzaghi – del tutto agraphicus Paolo Fabbri non è mai stato, anche se, al suo insegnamento, l’oralità si addice come una condizione nativa. Che i meriti di uno studioso si possano misurare dalla quantità delle sue pubblicazioni, è un’opinione che solo gli accademici possono ritenere, e a Fabbri, per svolgere il suo pensiero, è necessarío un interlocutore (presente o evocato in absentia) da cui distinguersi e un pubblico di ascoltatori”.
Fratello di Gianni, patron del Paradiso di Covignano, e pronipote di Ciro Musiani, un prozio tipicamente riminese che fondò la rivista degli anarchici tre giorni prima della nascita di Fellini, Fabbri era stato insignito nel 2019 del Sigismondo d’oro dalla città di Rimini, insieme allo scrittore Marco Missiroli. Lo scorso anno, in occasione dei 400 anni della Biblioteca Gambalunga di Rimini, aveva donato cinquanta volumi appartenenti alla sua famiglia. “La sua riminesità aveva radici profonde che si snodavano intorno un senso compiaciuto, orgoglioso e perfino autoironico di se stesso e del suo rapporto con la città. – lo ha affettuosamente ricordato il sindaco Andrea Gnassi – Diceva spesso che qui da noi lui è stato prima ‘l’anvod ad Panoun (il nonno Ersilio)’, poi ‘il figlio della Tina’ e quindi ‘il fratello di Gianni’. Ed era divertito quando alla cerimonia del Sigismondo d’Oro, all’età di 80 anni, raccontava come «per la prima volta mi chiamano con il mio nome e il mio cognome»”..
In una recente intervista, confidava le sue sensazioni sulla contemporaneità: “Siamo la cultura del superlativo, dell’esternazione e dell’iperbole enfatica che provoca emozione. Ai tempi di Pasolini e Fellini parole come ‘ragazzi’ e ‘paparazzi’ sono entrate nel lessico francese, poi si è imposta la ‘paninoteca’, oggi dall’Italia penetrano in Francia i nostri superlativi in – issimo. E poi c’è anche un abuso di prefissi del tipo: ultra-, stra-, mega-, iper-, maxi-, macro-, meta”. Il giudizio, dietro all’asetticità dell’analisi, era negativo. Dentro questo perimetro ha continuato fino all’ultimo, nonostante le condizioni fisiche sempre più precarie, a esercitare il ruolo di intellettuale a tutto tondo, e cioè portatore di una visione non convenzionale del presente e della realtà, pur scomoda e inascoltata alla massa che fosse.
Fabbri ha dato del tu anche alla malattia. Sempre convinto che andare oltre la superficie sia un dovere e una necessità per l’uomo. “Coraggioso? rispondeva ad una domanda sulla lezione che stava ‘regalando’ di fronte alla malattia – Non so se lo sono.
Diciamo che oppongo alla filosofia dell’essere quella del vivere. Il mio oncologo mi chiede spesso: «Paolo, tu vivi come se non avessi un tumore, come fai?». Rispondo che lotterò fino a quando il tempo avrà ragione del coraggio”.