Sono passati due mesi da quando ci siamo trovati a dover fare i conti con la pandemia. Da un giorno all’altro la normalità è diventata un ricordo e la vita di prima non tornerà per chissà quanto tempo ancora. Due mesi non sono poca cosa.
Nonostante questo, però, e nonostante gli sforzi compiuti, bisogna ammettere che regna ancora una certa confusione. Dalla fine di febbraio a oggi abbiamo assistito a un flusso di informazioni incredibile sull’argomento, abbiamo sentito parlare esperti di ogni tipo, abbiamo assistito alle più disparate ipotesi e teorie su quando e come saremmo tornati alla normalità, confermate e poi smentite a più riprese anche nel giro di pochi giorni.
Il risultato? La percezione di essere ancora in una situazione di navigazione a vista. Su una cosa, però, sembrano essere tutti d’accordo: la vera normalità tornerà quando sarà disponibile il vaccino contro il Coronavirus. La vera luce in fondo al tunnel, la vera vittoria di questa battaglia. Un elemento risolutore che, in mezzo a tanta confusione, non solo rappresenta un punto fermo, ma potrebbe essere già all’orizzonte. Anche nel segno di Rimini.
Giacomo Gorini (nella foto), 31 anni, è un immunologo, un riminese doc e, oggi, uno dei 110 scienziati del team del Jenner Institute di Oxford impegnato nella ricerca di un vaccino specifico per il Covid-19. Gruppo che non è certamente l’unico al mondo, ma che, al momento, si trova tra le fasi più avanzate dello sviluppo: lo scorso 23 aprile, infatti, sono iniziate le sperimentazioni del vaccino sull’uomo e, in caso di esito positivo, già a settembre avremo la conferma della sua efficacia (anche se per una sua distribuzione di massa si dovrà andare più in là nel tempo). Facendo tutti gli scongiuri possibili, dunque, tra le tante voci che potrebbero comporre uno dei momenti più importanti della storia recente, ce n’è una che parla riminese.
Dottor Gorini, ci spieghi. Possiamo essere ottimisti?
“Siamo fiduciosi. Il nostro lavoro sta procedendo, abbiamo superato le prime fasi e ora siamo già partiti con i test sull’uomo.
Nello specifico, procederemo su 510 volontari tra i 18 e i 55 anni, reclutati attraverso annunci sui canali informativi dell’Università. Volontari che saranno divisi in due gruppi, e solo ai membri di un gruppo verrà somministrato il vaccino vero e proprio, mentre gli altri riceveranno un placebo”.
A che scopo?
“Così facendo sarà possibile valutare l’effettiva efficacia del vaccino. Se, infatti, a distanza di tempo i contagiati del gruppo che ha ricevuto il vaccino saranno sensibilmente di meno di quelli del gruppo placebo, sarà ragionevole pensare che il vaccino sia efficace. Gli obiettivi di questa fase, infatti, sono due: innanzitutto valutare che il vaccino sia sicuro per gli umani, e poi dimostrarne l’efficacia, per poter così procedere alla fase successiva”.
Quale sarebbe?
“Qualora la sperimentazione sui due gruppi di volontari andasse a buon fine, in estate potremmo procedere con i test su un gruppo più ampio, 5000 persone. Sarà quello il momento più importante: se tutto andrà nella direzione giusta, a settembre avremo dimostrato l’efficacia del vaccino e si potrà partire con la produzione. Per la diffusione di massa, però, ci vorrà ancora del tempo”.
“Siamo fiduciosi: se i test sull’uomo avranno esito positivo potremo dimostrare l’efficacia del vaccino già a settembre, per poi partire con la produzione. Dispiaciuto per come Rimini, negli ultimi anni, sia stata presa d’assalto dall’anti-scienza”
Lei fa parte del gruppo di lavoro del Jenner Institute dell’Università di Oxford che, con le dovute cautele, potrebbe portare a un risultato storico. Com’è arrivato a farne parte?
“È un istituto di ricerca molto importante, impegnato su diversi fronti, come quello della malaria o dell’HIV. Sono entrato a far parte del gruppo che lavora al vaccino per il Covid-19 grazie alla professoressa Sarah Gilbert, scienziata straordinaria che lavora da anni sulle malattie emergenti, come le recenti SARS e MERS, e che ora è alla guida del gruppo per il Coronavirus. Io mi occupavo di ricerca per vaccini contro la malaria e mi è stato chiesto di unirmi al team per continuare a portare avanti il mio lavoro, ma concentrandomi sul vaccino specifico per il Covid-19”.
Oxford, però, è solo l’ultima tappa di un percorso partito sotto l’Arco d’Augusto. Com’è iniziato questo viaggio?
“In modo del tutto inaspettato. Sono un riminese doc, cresciuto studiando al liceo classico, che considero fondamentale per la mia formazione personale prima ancora che professionale. La svolta è arrivata a 16 anni, quando ho deciso di fare un viaggio nel Regno Unito per imparare l’inglese. Ho visitato l’Università di Oxford e ho avuto una vera e propria visione: sono rimasto talmente folgorato da quell’ambiente che ho deciso che sarei dovuto finire lì anch’io.
Una volontà tanto forte quanto, però, non semplice da soddisfare. Una scelta da vero sognatore, con la fortuna di far parte di una famiglia che ha deciso di sostenere un sogno. E così è partito tutto: mi sono laureato in Biotecnologie a Bologna, ho conseguito la magistrale al San Raffaele di Milano, dove sono stato allievo di Roberto Burioni e ho lavorato per tre anni nei laboratori governativi di Washington DC, negli USA, per un progetto di ricerca sui vaccini per l’HIV. Infine, dopo la tesi di dottorato a Cambridge, uno dei periodi più belli della mia vita, sono arrivato a Oxford, coronando il mio sogno”.
Un sogno nato all’improvviso. Ma al di là della folgorazione data dall’ambiente di Oxford, come ha scelto la carriera scientifica, arrivando da una formazione umanistica?
“In realtà era nato in me un sogno, ma era ancora indefinito. Il vero e proprio amore per la scienza è nato in seguito, quando studiandola mi sono accorto che tutto acquisiva senso. Attraverso la scienza potevo andare in fondo alle cose, potevo capire il funzionamento, potenzialmente, di tutto. E così mi sono trovato a dover scegliere tra la scienza e un altro mio grande amore, la filosofia. Ho riflettuto e ho capito che la filosofia avrei potuto apprezzarla anche da profano, la scienza no. E così ho investito tutto su quest’ultima”.
Sembra, dunque, che la scintilla dello studente di materie umanistiche sia rimasta. La scienza come mezzo per avere risposte, anche a domande fondamentali.
“Certamente. Ho scelto di studiare i virus proprio come risposta a una domanda esistenziale che sentivo in me. I virus, biologicamente, si trovano tra la vita e la morte. In un certo senso rappresentano il punto di mezzo tra la materia e la vita.
Sicuramente ero più giovane e più idealista, e oggi è un concetto da ridimensionare, ma la vera spinta a intraprendere lo studio dei virus era la convinzione di poter trovare, attraverso di essi, il senso della vita”.
Ora lei si trova lontano da Rimini. Ma quale rapporto mantiene con la sua città?
“Sono molto affezionato alla mia Rimini, anche se non ci torno spesso perché il mio lavoro e Oxford fanno ormai parte di me e della mia vita. Ho sofferto, come tutti, alla notizia del lockdown e, soprattutto, mi è dispiaciuto molto vedere Rimini presa d’assalto dall’anti-scienza negli ultimi anni.
Dovendo trovare un lato positivo nell’arrivo di questo virus, è che possa rinascere la consapevolezza dell’importanza fondamentale che la scienza ricopre nelle nostre vite”.