“Non c’è dubbio. Ad alcuni il Signore dona, per la loro nascita al cielo, la possibilità di viverla in giorni particolarmente belli e significativi. Era stato così per don Oreste, a cavallo fra il dì dei santi e quello dei morti, come pure per don Elio, nella festa dell’Annunciazione”.
Così il Vescovo ha commentato la notizia della morte di don Elio Piccari, 83 anni il 27 marzo. Un sacerdote amato, un padre spirituale per tanti, Un pastore con “l’odore del gregge”, un “ Giullare di Dio”, come l’ha chiamato Giovanni Paolo Ramonda, Presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, “ umile, gioioso e fedele collaboratore che ha costruito la Comunità Papa Giovanni all’ombra di don Oreste Benzi”. Difficile separare i due.
Ma il racconto della vita di don Elio lo lasciamo alle stesse parole del don, raccolte in una bella intervista di Alessio Zamboni per il mensile Sempre nel 2011, in occasione dei suoi 50 anni di sacerdozio.
Quando hai capito per la prima volta che saresti diventato un sacerdote?
“Un lunedì pomeriggio, avevo 6 anni e mezzo. Mia mamma tagliava l’erba e mi insegnava il Salve Regina in latino. Avevo paura ad andare a catechismo, perché non ero riuscito ad impararlo bene. La mamma però mi ha invitato ad andare lo stesso. Il sacerdote non mi ha interrogato, ma quel giorno mi ha detto: «Tu dovresti diventare prete». A 9 anni, poi, ho fatto un tema in cui scrivevo: «Vorrei fare il prete perché vorrei che tutti conoscessero il Signore». A 11 anni, il 7 ottobre 1948, sono entrato in seminario e a 24, il 9 luglio 1961, sono diventato sacerdote”.
Il tuo primo incarico?
”Cappellano a Sant’Arcangelo di Romagna. Poi, nel 1965, il Vescovo mi ha inviato a Miramare, ero il primo cappellano della parrocchia.
Lì ho fatto un’esperienza bellissima tra i giovani. La messa più bella la facevamo in barca, alle 3 del mattino. Aspettavamo che il sole si affacciasse sulla linea dell’orizzonte e iniziavamo: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo…» Era bellissimo. Nel 1967 sono stato inviato come Parroco a Pian Di Castello e due altre parrocchie: Ripamassana e Torricella”.
La tua vita si è poi legata a quella di don Oreste Benzi. Come l’hai conosciuto?
“L’ho visto la prima volta il 7 ottobre 1948, a pranzo in seminario. Lui frequentava l’ultimo anno di Teologia, io la prima Media. Mi ha subito colpito il suo sorriso. Poi è diventato il mio insegnante di francese e il mio direttore spirituale”.
Finito il seminario, perché hai tenuto i contatti con lui?
“Quando sono diventato prete lui era già «un nome» in diocesi e io lo chiamavo a parlare nelle parrocchie dov’ero. Già allora non arrivava mai puntuale. Ma sapeva agganciare i giovani in maniera impressionante. In quel tempo nasce anche quella che chiamavamo l’Università di Spadarolo. Con un gruppo di giovani sacerdoti ci trovavamo assieme a don Oreste per approfondire studi di pedagogia e psicologia, cercando di capire come lavorare con i preadolescenti e gli adolescenti. Dopo il Concilio, univamo questi studi con l’approfondimento dei documenti conciliari. Emergeva un’altra idea di Chiesa, una Chiesa come popolo. Il don diceva che anche noi preti dovevamo far vedere che vivevamo una vita comunitaria.
Da lì è nata l’idea di dar vita a questa nuova parrocchia in quattro sacerdoti, anche se ognuno di noi seguiva anche altre parrocchie. È stata la prima esperienza di questo tipo in Italia”.
In che maniera don Oreste ha influito sul tuo sacerdozio?
“Prima di tutto hanno influito su di me i miei genitori. Per loro il prete era una cosa sacra. Da loro ho imparato l’importanza della preghiera ma anche l’attenzione ai poveri. Poi hanno influito sulla scelta la mia catechista e il mio parroco. Don Oreste si può dire che mi ha ampliato la visione”.
Dal 1968 sei sempre stato accanto a don Oreste, alla Resurrezione e nella comunità Papa Giovanni. Tu lo definisci «un santo». Ma non è facile vivere accanto un santo. Com’è andata?
“Il Signore guida il suo popolo per mano di Mosè e Aronne: potremmo dire che lui era Mosè e io Aronne”.
Umanamente però non dev’essere stato facile per te.
“Lui era lui, però mi ha sempre fatto sentire una grande stima nei miei confronti. Anche se quando giravo con don Oreste la gente fermava sempre lui, parlava con lui… Allora gli dicevo, scherzando: «Io con lei non vengo più»”.
«Con lei…». Tanti anni assieme eppure non gli davi del tu. Perché?
“Non ce l’ho mai fatta a dargli del tu. Solo una volta ho provato ma sono diventato rosso. L’ho sempre sentito al di sopra di noi, sentivo che aveva una ricchezza interiore e una capacità straordinaria in tutti i campi: si intendeva di psicologia, filosofia, astronomia, matematica…
Lui studiava e leggeva come un matto. Un libro non lo leggeva tutto, bastavano poche pagine e aveva già capito. Così anche quando leggeva i giornali. La sera che è morto stava scrivendo i commenti a Pane Quotidiano e aveva sul tavolo la Bibbia e sei dizionari biblici”.
È vero che nella tua parrocchia nessun anziano finisce in casa di riposo?
“Sì. Se qualche anziano è finito in casa di riposo è una scelta della famiglia, che agisce per conto proprio e non si mette in relazione. Come scelta della parrocchia, se una famiglia è in difficoltà ci si dà una mano. C’era una donna sola che ha vissuto tanti anni da non autosufficiente: i vicini si alzavano anche di notte per assisterla e darle le medicine. Così è per tante famiglie”.
Chi è per te il prete?
“Nel ricordino della mia prima Messa ho scritto: «Nelle mani di Dio per gli uomini». Il sacerdote è il babbo. Il babbo si occupa di tutto, si cura dei suoi figli”.