Luigi Tonini, nel terzo volume della sua storia di Rimini (1862), ricorda che allora sotto le logge del Palazzo Municipale era murato un marmo che recava il testo latino della “francazione dei servi”. Preziosissimo lo definisce, col dichiarare ”libero ed ingenuo cittadino venuto d’altronde, tutto che servo fosse, avesse qui abitato per un anno ed un giorno senza essere stato cerco o requisito, ed avesse giurato nel generale Consiglio di fissar domicilio nella città” (p. 24). Il testo latino successivo, contenente la formula “exceptamus etiam”, Tonini lo rende erroneamente:“Eccettuati coloro…”. Mentre va tradotto: “Per eccezione accogliamo anche i servi dei cittadini nostri”. Il verbo “excipio” classicamente significa pure”cogliere, accogliere”, al pari di “accipio”, per cui incontriamo ”aliquem benigne excipere” (T. Livio) e “bene excipere” (Cicerone). Il Du Cange (“Glossarium mediae et infimae latinitatis”) reca un ”hospitio excipere” che rende con “accogliere”.
Quel «compresi» (che proponiamo al posto dell’«eccettuati» presente in Tonini), si comprende meglio riandando a quanto avviene a Bologna nella seconda metà del XIII secolo, quando c’è un’«affrancazione collettiva dei servi del contado», con il riscatto pagato dal comune (3 giugno 1257), come leggiamo nel saggio di Gina Fasoli, «Profilo storico dall’VIII al XV secolo» (in Storia della Emilia Romagna, I, a cura di A. Berselli», Bologna 1975). A Bologna in quella seconda metà del XIII secolo si afferma che «per diritto naturale, tutti gli uomini nascono originariamente liberi»; si ricorda che «il popolo e il comune di Bologna affrancò tutti i servi della città e del contado e li liberò da qualsiasi giogo di schiavitù»; e si constata che, nonostante ciò, si erano diffuse «alcune forme di schiavitù, soprattutto tra i nobili e i potenti, che aggiogano a sé uomini, i loro beni e i loro discendenti», ricorrendo a parole come fedeli, manenti, residenti, coloni, per cui «per la maggior parte gli uomini del contado e del territorio di Bologna […] sono pubblicamente vincolati ad un legame, per dir così, di schiavitù e quasi stanno per cadere in condizione di servitù se non vi si opporrà un efficace rimedio».
«I comuni liberavano i servi per vari motivi: per sfoltire le città sovraffollate e ricacciare i contadini in campagna a lavorare la terra e, soprattutto, per aumentare la popolazione tassabile perché i servi erano esenti dall’imposta in quanto proprietà dei loro signori», leggiamo in G. Piccinni, I mille anni del Medioevo, Milano 1999, p. 264.
«Infine la libertà si poteva comprare, singolarmente o a piccoli gruppi, riscattandola dal signore che la metteva in vendita dietro il pagamento di una somma di denaro o di un bene immobile del quale il contadino disponeva».
Quando nel 1895 Carlo Tonini, figlio di Luigi, pubblica il Compendio della Storia di Rimini, quel marmo era passato ”nel museo archeologico gambalunghiano”. Allora Carlo Tonini era direttore della Biblioteca gambalunghiana e della sua Galleria archeologica. Luigi Tonini ipotizza che il decreto sulla “francazione dei servi” sia del 1220, anno in cui a Rimini fu deciso “uno Statuto d’aggregazione de’ forastieri alla cittadinanza di Rimini”, di cui quel marmo è testimonianza (p. 27).
La ricchezza della Rimini del ’200
Il nostro Palazzo municipale rappresenta secondo Maria G. Tavoni (1975) le possibilità finanziarie del Comune di Rimini e la sua politica autonomistica rispetto alla Chiesa per favorire “attività che producono reddito e che sono anche fonte di risorse per l’erario pubblico”: ai cittadini, specie se benestanti, è vietato di trasferire il proprio domicilio, proprio mentre si favorisce l’ingresso dei liberi cittadini.
Prosegue Tavoni: “A decorrere dagli inizi del secolo XIII” molti nobili del contado scendono a Rimini: esentati da tasse e collette, s’impegnano ad aiutare la città contro chiunque, eccetto l’imperatore. Così “Rimini vive gli anni migliori della sua autonomia”.
Il marmo di cui s’è detto fu collocato sotto la loggia del Palazzo Municipale nel 1780 per decreto dei Consoli, capo dei quali era il conte Federico Santoni, come leggiamo nella Guida di Rimini (1893) di Luigi Tonini. Questo Palazzo fu eretto a partire dal 1204, quando era podestà Madio Bolognese, che Luigi Tonini in altro testo (Rimini dopo il Mille, a cura di Pier Giorgio Pasini, 1975), definisce “infelice” perché al cessare della sua funzione pubblica nel 1206 “fu ucciso da una contraria fazione di Riminesi”. Al tragico fatto Luigi Tonini, nel citato terzo volume della sua storia di Rimini (pp. 10-12), dedica attenzione ricordando che Rimini si adoperò per placare la situazione, ed evitare che il “potente Comune di Bologna” vendicasse l’ingiuria. Ai figli dell’ucciso furono dati soldi e restituite ”tutte le robe che gli erano state tolte”.
L’imperatore in Romagna
Il 1220 è anche l’anno in cui papa Onorio III consacra imperatore Federico II di Svevia, nato nel 1194 a Jesi nella Marca d’Ancona da Costanza d’Altavilla, regina dei Normanni di Sicilia, e da Enrico VI capo del Sacro Romano Impero. Federico nel 1202 è stato incoronato re di Sicilia. Due anni dopo è re di Germania. Nel 1215 ha ricevuto la corona imperiale. L’incoronazione imperiale da parte del papa Onorio III avviene il 22 novembre 1220.
Per recarsi a Roma (come leggiamo ancora nel citato III volume di L. Tonini, p. 28), passa per la Romagna, con un’unica preoccupazione: “Domare i Saraceni che erano in Sicilia”.
“Crederemo che fosse il benaccolto e festeggiato dai Riminesi in particolare, divoti allora all’Impero” (p. 29). In Sicilia Federico realizza una riforma rivoluzionaria: fa arrestare alcuni baroni, come scrive G. Tramontana (2012), e programma “la radicale revisione di ogni concessione feudale e la restituzione dei beni e dei privilegi illegalmente ottenuti negli ultimi trent’anni”. In Romagna infeuda il conte Uberto della Signoria di Castelnuovo (Tonini, p. 29).
La figura del servo
Ritorniamo al concetto di “servo”. In età medievale, dal punto di vista giuridico non è uno schiavo ma un uomo libero legato da un contratto ad un Signore, spiega lo storico Luigi Provero (2007): la condizione dei servi e gli obblighi a cui erano sottoposti tendevano a qualificarli in modo negativo anche perché “potevano essere venduti, donati od infeudati”. Quella del servo era una forma giuridica nuova che caratterizza la soggezione contadina al potere aristocratico. In tutta Europa, nel corso del Trecento, incontriamo diverse ribellioni dei servi: “Nacquero dalle campagne e dalla società contadina ma coinvolsero cospicui gruppi urbani”.
Antonio Montanari