IlJ’accuse scritto da Émile Zola, indignato all’epoca dal “caso Dreyfuss”, risuona forte ancora oggi e l’odio, la discriminazione e l’antisemitismo che travolsero il povero ufficiale francese ebreo accusato ingiustamente di tradimento, non sono solo materiali di cronaca, ma serpeggiano insidiosi nella società odierna, creando sentimenti da combattere con forza.
Per questo il rigoroso nuovo film di Roman Polanski, tratto dal romanzo di Robert Harris che ha curato l’adattamento assieme al regista, ricreando il celebre e scottante affaire di fine Ottocento (il capitano viene degradato e incarcerato nel 1895), già portato al cinema numerose volte, ha un legame forte con l’attualità, coinvolgendo anche in prima persona lo stesso autore, ebreo polacco, toccato nella sua adolescenza dalla tragedia della Shoah, senza dimenticare la cronaca sospesa tra casi giudiziari e gossip, quella che ha anche movimentato l’ultimo Festival di Venezia, dove il film ha vinto il Leone d’argento, Gran Premio speciale della Giuria.
Una tensione palpabile avvolge il film: si segue l’indagine di Picquart (Jean Dujardin), ufficiale capo dell’ufficio di statistica, convinto inizialmente come tutti della colpevolezza di Dreyfuss (interpretato da Louis Garrel), poi spinto a determinare la verità, una volta scoperto il castello di bugie che ha portato alla condanna. Contro il potere militare, più forte di quello politico, pronto a tutto tra falsità e processo farsa, Picquart reagisce per smascherare il vero colpevole e riportare il “traditore” alla dignità perduta. Ma le discriminazioni non si cancellano facilmente.
L’ufficiale e la spia (ma perché non lasciare il titolo originale “J’accuse”) è cinema di classe, ben orchestrato da un consumato artista come Polanski che si muove tra le infinite contraddizioni dell’essere umano per mettere a nudo le sue più ambigue sfaccettature.