Nel loro ultimo saggio, La scommessa cattolica. C’è ancora un nesso tra il destino delle nostre società e le vicende del cristianesimo?, Chiara Giaccardi e Mauro Magatti affermano che il cristianesimo è in definitiva una postura antropologica. «Nel Vangelo non è presentata una dottrina – che è stata piuttosto elaborata dall’istituzione ecclesiale nel corso del tempo, con finalità comprensibili – ma un modo di essere uomini e donne nel mondo».
Il cristianesimo come postura antropologica è una interessante chiave di lettura della vicenda umana di don Giancarlo Ugolini. La sua figura ed il ruolo che ha avuto nella chiesa e nella città di Rimini sono raccontati nella mostra “Io, poi sono uno sviscerato amante della libertà”, che dal 4 al 14 ottobre è allestita nella Corte della Biblioteca Gambalunga.
La mostra, promossa nel decennale della morte, ha avuto un’anteprima al Meeting. In quell’occasione alcuni suoi ex studenti al liceo della Karis hanno ricordato un suo refrain durante le ore di lezione. Ai giovani don Giancarlo ripeteva che la questione decisiva era se si stava di fronte alla vita in un atteggiamento di chiusura (e faceva il gesto di piegare il capo e di nasconderlo fra braccio e avambraccio) o in un atteggiamento di apertura (e spalancava le braccia con le palme rivolte verso l’alto). Qualcosa che assomiglia molto alla postura da lui assunta di fronte al suggestivo spettacolo di Capo Falcone, in Sardegna, la cui immagine (nella foto) è proposta nella mostra insieme al contraccolpo suscitato in lui dall’impetuoso gioco delle onde e del vento sugli scogli, una metafora della dinamica eterna fra libertà dell’uomo ed energia di Dio. È l’amore per la libertà che ha fatto di lui un grande educatore.
La lettura del saggio di Giaccardi e Magatti offre altri spunti che consentono di riscoprire ancora meglio la personalità di don Giancarlo e la novità che ha incarnato nella Rimini del Novecento. Anche lui, nato nel 1929, giovane prete negli anni Cinquanta, ha vissuto la stagione che i due sociologi chiamano della fede come adesione. L’adesione era ad un insieme di regole e principi morali, ereditati come tradizione indiscussa dalla comunità di appartenenza. «Una generazione che pensava la propria appartenenza religiosa in termini prima di tutto culturali e identitari. Il che comportava l’accezione di un insieme di precetti, valori, pratiche, giudizi che formavano un tutto unitario, capace di delimitare con nettezza un dentro e un fuori». Tutto questo mondo – nell’analisi del saggio – è stato messo in discussione e in larga parte spazzato via dal Sessantotto e dall’affermarsi del capitalismo del desiderio. Ma don Giancarlo Ugolini aveva avvertito l’insufficienza e l’inadeguatezza di quel modello ecclesiale già nella prima metà degli anni Cinquanta. Lui ricordava quegli anni come il predominio dell’attivismo e della verbosità, cose da fare e chiacchiere. La creazione del gruppo di Rimini Studenti segnalava appunto il desiderio del superamento dell’asfittico schema dentro/fuori. E le sue scorribande sul Galletto, fino a Venezia per seguire la Mostra del cinema, indicano una umanità “laica”, per nulla clericale, in cerca d’autore. Il cambiamento, per don Giancarlo, non avviene con il Sessantotto, che anzi sarà un momento di crisi rispetto all’esperienza di Gioventù Studentesca; avviene, o per lo meno se ne manifesta potente il desiderio, negli anni Cinquanta. Ecco perché nel 1985, quando risponde alle domande di Luciano Nigro per il settimanale comunista Settepiù, parla di don Giussani con queste straordinarie parole «Ho incontrato un uomo che speravo che ci fosse». Ci voleva l’incontro con il carisma di don Giussani (anni 1962/63) perché il desiderio di vivere il cristianesimo come una postura antropologica nel mondo trovasse una forma persuasiva e corrispondente, ma il seme era già stato gettato negli anni della formazione e della giovinezza dall’imperscrutabile libertà della Grazia. In ogni caso è stato l’incontro con don Giussani a dare a don Giancarlo quella “struttura umana” che tutti abbiamo conosciuto.
Don Giancarlo Ugolini è stato un cristiano del XX secolo che ha vissuto la propria fede facendo pienamente i conti con le promesse e le contraddizioni della modernità. Leggendo le considerazioni di Giaccardi e Magatti sul futuro del cristianesimo, mi sono tornate alla mente i contenuti di una mia conversazione con don Giancarlo nel novembre 2008, dalla quale è tratta la frase, pubblicata nella mostra, sulla solitudine come esperienza dell’impotenza. Si stava parlando del desiderio che aveva mosso il movimento del Sessantotto. Discorrendo su quale poteva essere oggi il punto di aggancio del cristianesimo per le persone contemporanee, lui sosteneva che è quello individuato da Giussani cinquant’anni prima, la solitudine come esperienza dell’impotenza. Né la riuscita, né il successo, nemmeno la realtà in quanto tale, bastano a soddisfare il desiderio umano. «La Chiesa – diceva – è stata profetica, uno come don Oreste è stato profetico perché si è accorto della solitudine in questi casi limite che lui affronta. Però il problema della solitudine non è solo dei poveri, è la questione di oggi. Chi la prende in considerazione è solo l’avvenimento cristiano, una presenza che ti ama, che ti guarda». E concludeva: «Ciò che mi intriga: mi chiedo se un uomo che si lasci abbracciare dal Mistero non abbia un’energia di intelligenza, di fantasia, di creatività, molto più acuta di un uomo che invece vuole costruire lui il suo destino».
Valerio Lessi
Curatore della mostra