L’arte pittorica riminese torna protagonista. O meglio, lo è sempre stata, ma in questi giorni torna “sotto i riflettori” per essere analizzata da una prospettiva particolare, che può portare a nuovi e stimolanti modi di comprenderne le caratteristiche, la storia e la potenza simbolica. Tutto questo grazie a Il Trecento riscoperto – Gli affreschi della chiesa di Sant’Agostino a Rimini (SilvanaEditoriale, 2019): in questo volume, voluto dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose Alberto Marvelli e dall’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Rimini, finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio e da Crédit Agricole Italia, gli affreschi di Sant’Agostino vengono analizzati da due prospettive, quella storico-filologica e quella simbolico-liturgica, che vengono poi integrate per dare uno sguardo nuovo all’arte di Rimini. Un volume ricco, che presenta approfonditi saggi di studiosi come Daniele Benati e Alessandro Giovanardi, oltre a un’estesa galleria di splendide immagini, realizzata dal fotografo Gilberto Urbinati.
La presentazione pubblica del libro è prevista per il prossimo 20 settembre alle ore 17, presso la chiesa di Sant’Agostino (via Cairoli, 41, Rimini). A introdurre il volume è Antonio Paolucci (foto) storico dell’Arte riminese, in passato Ministro dei Beni Culturali e direttore dei Musei Vaticani, attraverso un ricco intervento riportato di seguito, in anteprima per ilPonte.
“La pittura riminese è raffinata, spesso squisita, scriveva Cesare Brandi nel catalogo della mostra del 1935, indicando nella qualità il primo dei suoi caratteri distintivi. L’altro concetto fondamentale affermato da Brandi riguardava il primato giottesco.
Tutto nasce dal cantiere di Assisi. È da Assisi che prende forma, sul finire del XIII secolo, sotto il segno di Giotto, la lingua figurativa degli italiani. Dal crogiuolo assisiate si irradiarono, come da una rosa dei venti, tendenze diverse che, innestandosi in contesti culturali differenziati, diedero origine alle mirabili varietà del Trecento pittorico italiano, alla scuola riminese fra le altre.
Se questi sono i solidi cardini sui quali si è mosso, nell’ultimo secolo, lo studio della pittura riminese, la chiesa di Sant’Agostino rappresenta l’antologia fondamentale di quella stagione artistica. Sta al Trecento riminese come gli affreschi di Santa Croce a Firenze stanno al Trecento fiorentino. Occorre partire da Sant’Agostino per capire le persone e le opere della grande scuola pittorica riminese, una scuola che si è attestata e ramificata lungo tutta la dorsale adriatica, da Pomposa a Tolentino, da Ravenna a Fabriano. […] L’originalità di questo libro sta nell’aver voluto studiare le pitture trecentesche di Sant’Agostino utilizzando un doppio registro analitico: quello filologico tipico della scienza storico-artistica e quello della interpretazione simbolica, iconografica, iconologica, liturgica. La storia delle figure, quindi, chi le ha fatte, quando, come e perché e quello che le immagini hanno significato agli occhi dei credenti, nella simbologia religiosa e nelle forme del rito, e quello che ancora possono significare per i contemporanei”. […]
Giotto e la genesi della pittura riminese
“Il libro si apre con il lungo, denso saggio di Daniele Benati, lo studioso che ha curato la non dimenticata mostra sui riminesi del 1995. Il merito di Benati sta, prima di tutto, nell’aver agganciato, con efficaci argomenti, le origini della pittura riminese alla presenza di Giotto nel San Francesco (poi Tempio Malatestiano) e nell’aver anticipato per quanto possibile le prime affermazioni della scuola stessa. […] La risposta dei riminesi alle novità portate da Giotto è immediata se possiamo datare al 1303 gli affreschi di Giovanni da Rimini con Storie della Maddalena nella cappella della Vergine (o del Campanile) in Sant’Agostino. Continuando nello scrutinio della pittura riminese delle origini, Benati fissa un altro punto fermo. Gli affreschi con il Giudizio finale già nell’arco trionfale della chiesa, staccati e oggi custoditi nel Museo della Città, non sono opera di un maestro anonimo (conosciuto in letteratura come ‘Maestro dell’Arengo’ perché nel palazzo dell’Arengo quegli affreschi hanno avuto a lungo collocazione), ma sono usciti dalla bottega dello stesso Giovanni in una fase del suo stile più avanzata rispetto ai murali della cappella del Campanile. Benati arriva addirittura a indicare la possibile data di esecuzione del Giudizio finale, nel 1318 quando si tenne a Rimini, in Sant’Agostino, il capitolo generale degli eremitani. Prende forma, nelle pagine di Benati, il carattere e l’identità di una bottega pittorica riminese formata da Giovanni, da Giuliano e da un non meglio specificato Zangolus (Giovanni Angelo)”. […]
La “liturgia cosmica”: il simbolismo in Sant’Agostino
“Una liturgia cosmica. Teologia e simbologia degli affreschi trecenteschi in Sant’Agostino si intitola il saggio di Alessandro Giovanardi, ed è stupefacente il dominio dei materiali scritturali ed esegetici che lo studioso dispiega per entrare nel significato e nel ruolo didattico e liturgico degli affreschi in Sant’Agostino. I quali risultano così stretti fra l’analisi filologica di Benati e quella iconografica e iconologico-liturgica di Giovanardi. Il risultato è un’operazione congiunta che ci permette di vedere gli affreschi di Sant’Agostino come mai era stato possibile prima. […] Se la chiesa, edificata e abitata dai credenti è come la scala di Giacobbe che ci porta dalla terra al cielo, dal visibile all’invisibile, di questo concetto il Sant’Agostino era perfetta figura quando esisteva ancora il tramezzo che divideva lo spazio presbiteriale da quello riservato ai fedeli. Se l’Altissimo, con il Cristianesimo, è diventato Dio-Uomo, allora questo mistero deve essere velato e solo per gradi disvelato. Come il sommo sacerdote dell’Antica Legge – ricorda Giovanardi citando Tommaso d’Aquino – entrava nel Sancta Sanctorum attraverso la tenda, così noi ci entriamo attraverso l’umanità di Cristo che fa velo alla sua divinità. […] Grazie a Giovanardi si attraversano gli affreschi absidali di Sant’Agostino ed è come entrare in una foresta di simboli. È un simbolo la loquela digitorum del Pantocratore che figura al vertice delle croci dipinte riminesi, con le dita disposte a significare la Santissima Trinità e la doppia natura, umana e divina di Cristo. […] Sono un simbolo i colori delle vesti del Salvatore: rossa porpora la tunica a significare la regalità, azzurro il mantello, figura della natura divina del Cristo. È un simbolo il sontuoso tappeto operato dietro il Cristo in croce, allusivo al velo del tempio di Gerusalemme che il terremoto squarciò al momento della morte di nostro Signore. Ancora, negli affreschi della cappella della Vergine, il lavacro del Bambino nella Natività allude al Battesimo che un giorno avverrà nelle acque del Giordano per mani di Giovanni il Battista, mentre la culla sulla mangiatoia ha la forma del sepolcro e il Cristo benedicente, nella volta, ha le orecchie bene in vista, fortemente rilevate, per meglio ascoltare le preghiere e le suppliche del suo popolo”.
Le immagini, le vere protagoniste
[…] “La magnifica campagna fotografica condotta da Gilberto Urbinati è la restituzione per immagini degli affreschi di Sant’Agostino più completa e più affascinante fra quante ne ha prodotte la moderna editoria storico-artistica. Il grande fotografo deve saper guardare l’opera d’arte con occhio insieme speculativo ed empatico. […] Se si ferma di fronte all’affresco con la Purificazione della Vergine capisce che il cuore simbolico della composizione è la nobile architettura antichizzante che fa da cornice alla scena. Ma capisce anche che il muto colloquio della Vergine con il vecchio Simeone, nel momento di presentare l’offerta della purificazione, è il fuoco poetico dell’episodio. Ed ecco il particolare bellissimo delle mani della Madonna in atto di presentare l’offerta sacrificale. […] L’episodio di San Giovanni che fa crollare il tempio di Diana a Efeso, nella cappella presbiteriale, è ora, grazie a questa campagna fotografica, di fronte a noi in ogni dettaglio. Sembra di poter avvertire il fragore delle pareti che crollano, lo schianto degli idoli che cadono a pezzi.
Questa è la grande fotografia d’arte: mimesi del Vero visibile, sua interpretazione intellettuale e comprensione poetica”.
Antonio Paolucci