Mons. Claudio Maria Celli nasce a Rimini nel 1941. Il suo primo incarico nel servizio diplomatico della Santa Sede risale al 1972, quando viene nominato addetto nella Nunziatura dell’Honduras, poi con altri ruoli si sposta nelle Filippine e in Argentina. Nel 1981 collabora alla Segreteria di Stato col card. Agostino Casaroli. Nel 1990 Celli diventa Sottosegretario della Segreteria di Stato per i Rapporti con gli Stati e in questa veste nel 1993 vola a Gerusalemme per firmare lo storico “accordo fondamentale” che apre la strada alle piene relazioni diplomatiche fra Israele e Vaticano. Nel 1994 riceve il Sigismondo d’Oro. È stato anche presidente del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali e del Centro Televisivo Vaticano. È stato anche segretario dell’Apsa, l’organismo che amministra il patrimonio del Vaticano.
Nella foto mons. Celli è insieme a mons. Vincenzo Guo Xijin (vescovo “sotterraneo”, riconosciuto dal Vaticano) e a mons. Vincenzo Zhan Silu (riconosciuto dal regime). Ora insieme, uno nel ruolo di ausiliare, guidano la diocesi di Mindong.
Posso confermare che mons. Antonio Yao Shun, consacrato vescovo di Jining/Wulanchabu, in Mongolia Interna (Cina), ha ricevuto il Mandato pontificio il 26 agosto 2019. La consacrazione episcopale di mons. Antonio Yao è la prima che avviene nella cornice dell’Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese, firmato a Pechino il 22 settembre 2018”. La notizia viene dalla sala Stampa vaticana. E proprio il 26 agosto è il giorno scelto fra i “Lunedì di Viserba” per ascoltare monsignor Claudio Maria Celli su “La Chiesa in Cina. Un non facile cammino di speranza”.
Mons. Celli sarebbe in pensione, ma papa Francesco, lo sappiamo, non è uno che ami divani e poltrone. Così, ora che qualche spiraglio si è aperto per la Chiesa nel continente cinese, considerato che per molti anni era stato incaricato dai papi che si sono succeduti di cercare di avviare un dialogo fra Vaticano e Repubblica Popolare Cinese, lo ha richiamato in servizio e gli ha affidato il ruolo di capo delegazione nei rapporti con il Governo cinese.
Come sempre mons. Celli è disponibile al dialogo, ma sul tema, è, giustamente, molto cauto e attento anche alle parole che usa.
Aprendo l’incontro lei ha fatto un’ ampia introduzione storica del rapporto Chiesa e Cina…
“Un cammino orientato verso il futuro esige la consapevolezza delle radici del dialogo. Il mio rapporto con la Cina è cominciato molti anni fa. Era il 1982, al tempo di Papa Giovanni Paolo II, io ero appena tornato dall’Argentina. I miei superiori mi affidarono il desk dell’Estremo Oriente in cui emergeva fortemente il tema cinese. La situazione cinese, ecclesiale, era particolarmente complessa. La Santa Sede era sommersa dai messaggi dei vescovi cinesi che parlavano della vita e della sofferenza delle diocesi. Si trattava di informazioni preziose che denotavano la vitalità di quelle comunità cattoliche. Emergevano due comunità: una clandestina e una che aveva accettato l’intervento delle autorità civili nella religione. Dopo il ’58 erano cominciate le prime ordinazioni episcopali illegittime e la Santa Sede aveva risposto in maniera molto forte, ma senza frenare il fenomeno”.
Negli anni ’80 le ordinazioni di quella che era chiamata la chiesa clandestina, fedele al Papa, si moltiplicarono. Nel suo intervento ha confidato l’emozione nel ricevere i bigliettini scritti in latino su cui era scritto “ego consecravi episcopum….” e la data.
“In quell’epoca toccava a me redigere l’appunto che informava il Santo Padre delle ordinazioni episcopali clandestine. E queste avevano un ritmo marcato. A volte in una diocesi si consacravano tre vescovi clandestini, mantenendo uno stile che si era consolidato negli anni della presidenza di Mao Tse Tung, e cioè quello di affidare la responsabilità di una diocesi a tre ecclesiastici, così da superare gli arresti”.
Come sono cambiate le cose?
“Dobbiamo a Giovanni Paolo II, al cardinal Agostino Casaroli, all’allora monsignor Silvestrini i primi passi di un colloquio con le autorità civili. Giovanni Paolo II seguiva personalmente e con grande attenzione gli sviluppi delle comunità cattoliche in Cina e cercava di stabilire contatti con le autorità (non posso dimenticare il mio primo incontro all’ambasciata di Pechino a Roma: dialogo non facile e rapporti umani tesi). Come non ricordare, poi, certi suoi interventi in occasione di ricorrenze legate alla figura di Matteo Ricci o la sua lettera personale a Deng Xiaoping, affidata alla gentile intermediazione del senatore Vittorino Colombo. Sul piano ecclesiale tre sono state le piste operative della Santa Sede: sostenere le comunità ecclesiali clandestine che soffrivano per la loro fedeltà a Pietro; favorire il ritorno alla piena comunione dei vescovi che, dopo essere stati consacrati illecitamente, avevano più volte presentato richiesta di legittimazione (il Papa voleva assolutamente che non ci fosse uno scisma “di fatto”); mantenere i contatti con i vescovi che, specialmente per motivi di salute, uscivano dal Paese”.
Che cosa emergeva da questi contatti con i vescovi?
“Emergevano un senso profondo di comunione ecclesiale con il Papa, un’acuta sofferenza per aver accettato l’ordinazione episcopale in forma illecita, un desiderio fortissimo di essere autenticamente cattolici e cinesi. Iniziò una serie di incontri. Un posto particolare nella mia memoria occupa quello del vescovo di Shanghai, Ignazio Gong Pinmei, con il Santo Padre Giovanni Paolo II (nella foto). Ebbi il privilegio di accompagnarlo, insieme al padre Vincent Chu, s.i., fino all’ingresso dello studio privato del Papa. L’anziano presule si muoveva in sedia a rotelle, indossava una semplice talare nera, zucchetto e croce pettorale. Quando però arrivammo allo studio del Papa, monsignor Gong mi disse: «Voglio entrare camminando» e si mise in piedi. Apertasi la porta, il Papa abbracciò monsignor Gong e gli disse: «La ringrazio per la sua fedeltà a Cristo e alla Chiesa».”
Com’è la situazione attuale?
“In Cina abbiamo una sola Chiesa, con una comunità ufficiale e una comunità clandestina. Ma abbiamo una sola Chiesa. Non posso dimenticare certe lettere che vescovi clandestini scrivevano al Papa, manifestando la propria fede e la propria comunione. Un giorno leggevamo di fronte al Papa una di queste lettere, di un vescovo illegittimo, e io dissi al Papa: Padre Santo, ci sarebbero vescovi legittimi nel mondo che non scriverebbero mai una lettera del genere. È stata una delle grandi decisioni di Giovanni Paolo II nel poter recuperare un rapporto di comunione con tutti quei vescovi che nel corso degli anni avevano accettato di essere ordinati illecitamente. Si viveva una grande tensione bipolare: da un lato sostenere il cammino di fedeltà della Chiesa cattolica che aveva accettato la clandestinità, dall’altro il recupero alla piena comunione di coloro che avevano cercato determinate realtà”.
La sollecitudine dei Papi verso la Cina è parsa costante…
“Ricordo ancora che quando Giovanni Paolo II era già in sedia a rotelle, mi domandava: ‘Pensa che ce la farò ad andare a Pechino?’ Benedetto XVI ha continuato sulla stessa scia. Il cardinale Ratzinger era stato sempre coinvolto nel dialogo sulla Cina. Per questo, quando il cardinale Ratzinger divenne Papa, sapeva perfettamente cosa era il punto del cammino con la Cina. Un cammino che poi l’ha condotto nel 2007 alla pubblicazione della famosa lettera ai cattolici cinesi, una lettera di una grande apertura. Papa Benedetto ha aperto in maniera quasi silenziosa, ma direi quasi in forma naturale determinate porte che rispondevano a delle problematiche che la comunità cinese soffriva profondamente: è possibile passare da una clandestinità ad una ufficialità? Stabilire un dialogo con le autorità cinesi?”
E con papa Francesco?
“Papa Francesco si pone nella stessa scia. Il dialogo non è facile. Io dico sempre, scherzando, che siamo due entità un poco dogmatiche. Loro e noi. Ed è innegabile che partiamo da contenuti culturali, di visioni d’insieme, particolarmente diverse”.
Ma c’è anche ottimismo…
“Il martirio della pazienza si può applicare anche alla Cina. Dobbiamo andare avanti assolutamente. Non si può rimanere legati a formulazioni da torre d’avorio. Il grande cambiamento, la grande sottolineatura che Papa Francesco sta portando è proprio di questa dimensione ecclesiale. E oggi la Santa Sede è in un dialogo forte. Quando termineremo? Anche io vorrei saperlo”.
Ha spesso usato l’immagine della gabbia…
“Ho usato molte volte un esempio, quello del bellissimo uccello in gabbia. Ritengo ancora che siamo ancora in gabbia, ma quando cominciai il dialogo la gabbia era piccola, oggi è molto più grande. Quando cominciai ad occuparmi di Cina non si poteva nemmeno menzionare il nome del Papa nella celebrazione eucaristica, oggi tutti i sacerdoti menzionano la comunione ecclesiale. Si è camminato e quel cammino è l’unica soluzione che abbiamo, l’unico percorso che possiamo fare insieme, confrontandoci, vedendo il come, in che misura. Oggi ci sono le condizioni per affrontare meglio i problemi, ma non mi creo illusioni. Il cammino verso la normalizzazione della vita della Chiesa è ancora lungo, non si è ancora concluso. Non è un caso infatti se l’accordo è ancora provvisorio. Non ho mai vissuto di illusioni, ma di speranza sì. Disponibile ad accogliere le sorprese del Signore, anche in Cina”.