Il 2018, per l’occupazione, nonostante l’economia non sia andata fortissimo, è stato un anno boom. In provincia di Rimini gli occupati (è giusto ricordare che l’Istat, l’Istituto di statistica, considera occupati chi lavora anche una sola ora a settimana) sono balzati da 140mila del 2017 a 152mila. A Forlì-Cesena da 168 a 176mila, a Ravenna da 167 a 172mila. Nel complesso della Romagna gli occupati sono aumentati del 5 per cento, superando l’1.6 per cento di incremento medio regionale.
Certamente un buon risultato, tanto più se accompagnato da un parallelo calo della disoccupazione. Quando, però, questo capita in un quadro economico che si muove al minimo, per non dire stagnate, sulla bontà del risultato può sorgere qualche dubbio. Non abbiamo informazioni sulle ore lavorate a livello provinciale, ma sul piano nazionale, dal 2013 in poi, si è assistito ad una divaricazione crescente tra numero di occupati e ore lavorate. Così, se nel 2008, prima della crisi, un occupato lavorava in media 455 ore l’anno, alla fine del 2018, col totale degli occupati tornati al livello pre crisi (circa 25 milioni), le ore lavorate individualmente si sono ridotte a 430. Più persone al lavoro, ma per tempi più brevi. Presumibilmente anche con salari ridotti.
I dati sul valore aggiunto (la ricchezza creata) provinciale 2018 ancora non sono disponibili, ma se a livello nazionale il Pil dell’anno scorso è aumentato dello 0.8 per cento e quello regionale viene stimato intorno ad un più 1.4 per cento, è difficile pensare che la Romagna abbia fatto molto meglio. Questo vuol dire che un maggior numero di persone è stato chiamato a produrre grosso modo la stessa torta (ricchezza) dell’anno prima. Dato che già denoterebbe un abbassamento della produttività per occupato. In altre parole: si starebbe assistendo ad un proliferare di occupazioni professionalmente povere, e di conseguenza pagate anche meno.
Da una verifica facile da fare, questa volta attingendo ai dati dell’Inps sul lavoro dipendente nelle imprese private, risulta che nel 2017 un lavoratore in provincia di Rimini ha percepito una retribuzione media annua di 16mila euro, a Forlì-Cesena di 20mila euro, a Ravenna di 21mila euro, a fronte di una media regionale di 23mila euro, ma con Bologna, Parma, Modena e Reggio Emilia che viaggiano intono a 25mila euro.
E’ pur vero che a Rimini, per via della stagionalità dell’impiego turistico (due lavoratori su cinque), si lavora una cinquantina di giornate meno l’anno (206 giornate contro una media in regione di 249), situazione che abbassa le retribuzioni annuali di molti, ma non può sfuggire che i valori sono nella scala bassa anche in riferimento alle retribuzioni medie giornaliere: 77 euro in provincia di Rimini, 84 euro a Forlì-Cesena e 89 euro a Ravenna. Retribuzioni giornaliere che salgono, invece, a 99 euro a Bologna e Parma, 97 euro a Modena, 96 a Reggio Emilia e 89 euro a Piacenza.
Sintetizzando: a Rimini un lavoratore porta a casa una salario annuo che è oltre un terzo più leggero del suo omologo di Bologna e una retribuzione media giornaliera un quinto più bassa. Le altre province della Romagna fanno meglio, ma sono sempre nella parte bassa della classifica regionale. Non è una novità, ma una riproposizione.
Da cosa dipende?
Sicuramente dalle rispettive strutture produttive. In Emilia c’è più manifattura di qualità, che richie anche servizi allo stesso livello, in Romagna meno. Il turismo è ad alta intensità di lavoro, ma le figure di alto profilo professionale richieste sono poche (poi, a detta degli stessi imprenditori del settore, una figura professionale valida preferisce lavorare tutto l’anno e non si accontenta di pochi mesi). Una distanza, tra Emilia e Romagna, che rischia di accentuarsi se, come dimostrano i dati sugli impatti della strategia regionale di specializzazione intelligente 2014-2019, il grosso delle risorse economiche se ne va, ancora una volta, in Emilia. Senza che la Romagna sia in grado di offrire un modello altrettanto intelligente e competitivo.