Al Teatro dell’Opera di Roma è andata in scena Tosca per la regia di Talevi, con le scene originali del debutto avvenuto nel 1900
ROMA, 26 giugno 2019 – Abituati a rivisitazioni quasi sempre virate al contemporaneo, dove tutti i riferimenti storici – fondamentali in un’opera come Tosca – assumono contorni nebulosi e indeterminati, il recupero, da parte dell’Opera di Roma, di scene e costumi utilizzati nella storica première del 14 gennaio 1900 assume un significato importantissimo. Poco importa, dunque, se oggi sono il frutto di un’accurata ricostruzione nei laboratori del teatro. Del resto il capolavoro di Puccini è opera romana al quadrato: non solo debuttò al Costanzi (l’antico nome dell’attuale Opera), ma soprattutto mette in scena gli eventi legati alla Repubblica Romana, segnata dalla fuga del papa e da un triumvirato che godeva del sostegno napoleonico. Chi non conosce a fondo la storia della Capitale di solito non ha a fuoco questa breve stagione rivoluzionaria, datata esattamente un secolo prima, rischiando così di equivocare le parole del libretto di Illica-Giacosa e la complessa situazione politica che viene adombrata.
Questa ricostruzione delle scene e dei costumi originali di Adolf Hohenstein risale al 2015 (se ne sono fatti carico, con scrupolo e rigore filologico, Carlo Savi e Anna Biagiotti) e, da allora, Tosca in versione antica viene riproposta regolarmente ad ogni stagione. La regia è stata invece affidata ad Alessandro Talevi, che per l’occasione ha rinunciato a ogni intervento “dissacratore”, concentrando tutte le attenzioni sulla recitazione degli interpreti e sull’approfondimento del loro profilo psicologico. Al di là di quelli che sono i meriti dei singoli cantanti, ne scaturisce uno spettacolo esemplare per chiarezza, pur senza scivolare nel didascalico: uno di quegli allestimenti che andrebbero mostrati a studenti e neofiti per far capire le potenzialità del teatro operistico.
Splendido il colpo d’occhio iniziale: la ricostruzione dell’interno della chiesa di Sant’Andrea della Valle, dove sta lavorando il pittore Cavaradossi, è perfetta e la scena del Te Deum di grande impatto spettacolare, soprattutto perché i riferimenti alla musica antica che fa Puccini assumono finalmente il loro giusto peso semantico. Altrettanto efficace e fedele appare poi la sala di palazzo Farnese, dove si svolge il secondo atto. Più neutra, forse, la ricostruzione di Castel Sant’Angelo nel terzo.
Di un contesto visivo così favorevole, però, non ha saputo approfittare il giovane direttore spagnolo Jordi Bernàcer, che ha puntato soprattutto sui contrasti fonici senza troppa attenzione alla raffinatissima orchestrazione pucciniana: quella tavolozza di sfumature che vanno dalla più estenuata tensione lirica alle tinte tragiche, senza trascurare i risvolti sottilmente ironici. Tutti presenti, poi, certi vezzi della tradizione esecutiva, che in un’operazione – come è questa – di recupero delle origini non dovrebbero trovar spazio: dall’enfasi di Recondita armonia, che lascia svaporare la natura di soliloquio contrappuntato dagli interventi del Sagrestano, a certi “parlati” che Puccini vorrebbe rigorosamente cantati.
Gli interpreti, da parte loro, si sono destreggiati in base alle proprie caratteristiche e doti naturali. Svetlana Kasyan – voce un po’ troppo fissa e incline a tentazioni falsettanti – non ha il carisma vocale di Floria Tosca, ma il soprano georgiano ha saputo rendere con efficacia la gelosia funesta del personaggio e una certa idea di debolezza femminile, fino alla metamorfosi che la porterà prima all’omicidio e poi al suicidio. Gustavo Porta possiede invece voce importante, ma il trascorrere del tempo si avverte da un’emissione piuttosto slabbrata, che il tenore argentino è riuscito a contenere solo a tratti: la sua interpretazione s’inserisce comunque in un cliché abbastanza tradizionale del personaggio di Cavaradossi. Completava il terzetto protagonistico il rumeno Sebastian Catana: baritono lirico di notevole solidità, che disegna – attraverso un’esemplare linea di canto – un barone Scarpia autenticamente in grado d’incutere terrore. Molto ben costruito dalla regia il personaggio del Sagrestano, il baritono Domenico Colaianni, che – a dispetto di un volume un po’ debole per tener testa all’orchestra pucciniana – riesce però ad andare oltre alla solita macchietta del personaggio. Icastico, nei panni di Spoletta, il tenore Saverio Fiore; ma si è imposto anche l’Angelotti di Luciano Leoni, e Antonio Taschini è riuscito a fare del Carceriere un vero e proprio personaggio.
Di solito i registi non amano mettere in scena le opere di Puccini, perché le indicazioni librettistiche – se rispettate – lasciano pochi margini d’intervento; la musica, poi, già dice tutto sulle psicologie dei personaggi. Raccoglierne e assecondarne le sollecitazioni, però, si può rivelare una mossa vincente.
Giulia Vannoni