Dieci ore e due minuti. A pedalare. Sudare. Faticare. A chiedersi, quando gli sforzi della fatica hanno iniziato a dilaniargli lo stomaco, chi glielo avesse fatto fare. Poi, però, l’arrivo lassù in alto. Il panorama sconfinato che si apriva ai suoi occhi e quella sensazione di essere ancora più vicino a chi, quello spettacolo lo aveva creato. E allora, come un’iniziezione di forza, giù ancora a testa bassa a pedalare. Tra neve, fango ed erba bagnata. Matteo Panzeri, riminese doc, conosciutissimo per essere il proprietario, insieme ai fratelli, della cantina “Fiammetta” di Croce e per la sua freschissima nomina a team manager dei Titans Basket, è appena tornato dalla Hero Dolomites, una delle gare di mountain bike più massacranti d’Europa. Ottantasei chilometri per 4.500 metri di dislivello. Il classico Giro dei Quattro Passi, che gli amanti dello sci conoscono bene, con l’aggiunta, tanto per non farsi mancare nulla, di un altro “strappo”. Con lui, altri 49 riminesi, molti dei quali con la maglia degli Sbubbikers.
Allora, Matteo: come va?
“Un po’ affaticato, con diversi dolorini, ma felice. Come del resto mi è successo anche le altre quattro volte”.
Ci racconti un po’ la gara?
“La Hero è divisa in due percorsi: uno da 60 chilometri, che poi è il Sellaronda classico, e quello più lungo, 86 chilometri con 4.500 metri di dislivello. In partenza le incognite erano tante, soprattutto per la neve che ancora era presente in modo abbondante. In realtà, a parte un paio di passaggi, tutto è andato alla perfezione. Il tempo ci ha sicuramente dato una mano. Io sono partito con l’obiettivo di metterci intorno alle dieci ore, ho sforato di due minuti, ma va benissimo così. Diciamo che dopo le prime due salite, la Dantercepies e Passo Campolongo, quando abbiamo superato Arabba iniziando il sentiero infernale dell’Ornella, ecco lì qualche pensiero negativo mi è venuto. È talmente ripido che in tanti sono scesi dalla bici. Poi, però, tutto dopo è andato come me lo aspettavo”.
Se posso permettermi: ma chi te lo ha fatto fare?
“In tanti me lo chiedono (ride). Diciamo che è una sfida con me stesso, ma è anche un momento, forse uno dei pochi, in cui posso stare davvero da solo e riflettere sulla vita. La cosa, però, che mi spinge in maniera totalizzante è la consapevolezza che ogni volta che arrivo in alto, mi si apre davanti un panorama che mi lascia sempre a bocca aperta. E lì, in quel momento, mi sento davvero vicinissimo a Dio. Quindi la fatica è ben ricompensata. Inoltre, in questa edizione, sono accadute diverse cose che hanno aggiunto emozioni su emozioni”.
Quali, se si possono sapere?
“La prima è aver fatto buona parte degli 86 chilometri a fianco di un ragazzo che non aveva un braccio. E chi va in mountain bike sa cosa significhi. La sua tenacia, la sua forza sono state adrenaliniche. Poi, certamente, il tifo di un gruppetto di amici, tra i quali c’era mia moglie Luana, che in cima al Pordoi, al Rifugio Maria, ci hanno atteso per incitarci. E poi l’arrivo e l’abbraccio dei compagni di questa spendida corsa. Se posso, vorrei dire un grande grazie a chi mi ha permesso di completare questa gara: Ercole Dellatorre che mi ha preparato alla perfezione”.