Il Teatro oltre la memoria. Rimini e il Galli ritrovato (a ottima cura di Annarosa e Giulia Vannoni, coordinamento redazionale di Laura Fontana, elegante grafica di Enzo Grassi, pp. 239, APM Edizioni, euro 30), racconta la storia avvincente, fra conflitti e passioni, della fabbrica “magnifica” di Luigi Poletti, inaugurata il 16 agosto 1857 da Giuseppe Verdi, riaperta al pubblico il 28 ottobre 2018, con la Cenerentola di Rossini: settantacinque anni dopo la bomba del 28 dicembre 1943, che ne aveva sfondato il retro e distrutto il tetto, lasciandola preda delle spogliazioni. Il volume è ricco, testimonia il risultato splendido di forze collettive che da tempo non si vedevano in campo, dato che la vocazione di questo angolo affascinante e sabbioso della Romagna è stata spesso di autodistruggere le proprie qualità: un anarchismo divertente solo quando lo vediamo in Amarcord. Vorrei dare ai lettori un sommario di questo libro, che spero ogni famiglia di Rimini custodirà.
Il volume si apre al di là delle polemiche, con i ringraziamenti e il bilancio del sindaco Andrea Gnassi, e del direttore del teatro Giampiero Piscaglia, nel segno della “tradizione del nuovo” che Luciano Anceschi riprendeva da Harold Rosemberg: essa stava a cuore a chi pensava al recupero del teatro secondo filologia e innovazione nel contempo, in armonia tra due piazze importanti: quella medievaleggiante e rinascimentale di palazzo Garampi, e quella con sostrato di domus, via romana e Castello di Sigismondo. L’entusiasmo è più che legittimo: se non ci fosse stata passione e determinazione, calati nei progetti più ampi del contesto dell’intera città, l’opera non ci sarebbe ancora, così ben curata, anche in previsione delle sue ampie disponibilità future. Giustamente Carlo Zini, Presidente di CMB, l’antica Cooperativa Muratori e Braccianti di Carpi (all’avanguardia anche nell’attuale, lunga congiuntura di crisi), che ha portato a termine il teatro e finanziato lo stesso volume, manifesta un parallelo orgoglio.
Le prime due sezioni sono storiche. L’una (Rimini e il suo Teatro) riguarda il background umano, culturale, sociale di Rimini, e la scelta del luogo dove costruire il nuovo teatro: occasione per me di presentare un quadro delle famiglie di azionisti che lo vollero; e per Piero Meldini di scrivere un saporoso racconto della diatriba tra i due schieramenti, nati ancora prima della data “ufficiale” del 1828: due “partiti presi”, è il caso di dire. La Società degli azionisti era variegata, con gente nuova. Come scriveva Michelangelo Rosa al Governatore Bernardo Zacchia, le nobili e potenti famiglie erano tutte spente o in estinzione. Erano state potenti nel Governo della Curia romana, che, con tre papi, aveva potuto ben dirsi romagnola, e quasi riminese. Ma lo Stato della Chiesa era in crisi totale. Comunque, più che la potestas politica, su tutto il mondo prevaleva l’auctoritas della cultura classica, con il simbolo ben visibile nelle «mura e gli archi» di Roma imperiale. E Rimini aveva avuto i massimi rappresentanti di quella cultura, a partire da Giuseppe Garampi (1725-1792), a capo dell’Archivio segreto Vaticano e nunzio a Vienna (capitale dell’ultimo impero occidentale).
Rimini era depressa. Non solo a causa del vertiginoso mutamento di regimi che si erano susseguiti dall’invasione napoleonica. Le famiglie più libertarie, con la valigia sempre pronta per esili, o prigioni, si preparavano alle fasi più cruente per l’Unità d’Italia. Nutrivano una doppia anima: sensibile alla democrazia, ma anche alla grandeur del cesarismo: come mostrano appunto Napoleone, Napoleone III, e un libertario socialista romagnolo di nome Mussolini. Insomma, Bruto e Cesare nella stessa persona. Tutto quel che era “classico”, non era il pane dei reazionari, ma dei rivoluzionari. Era “romantico”, come l’opera lirica: l’emblema della cultura italiana nell’Ottocento. Così il nuovo teatro fu “classico”, e di proporzioni adeguate alle speranze investite nell’Industria dei Bagni. Era il gioiello che la città storica consegnava alla mutazione radicale di Rimini. Un moderno attraversamento del Rubicone, come indica – inconsciamente – il sipario di Francesco Coghetti.
La seconda parte della sezione storica riguarda l’edificio del Poletti. Attilio Giovagnoli se ne occupa da par suo: tesi di laurea, studi, impegno documentario profuso, proposte ricostruttive: è stato con Giovanni Rimondini il principale esperto e difensore del Poletti. Guido Zangheri espone molto nitidamente la cronistoria dell’intitolazione del teatro, da Vittorio Emanuele ad Amintore Galli, e gli ultimi difficili settantacinque anni. La terza sezione, Il Teatro ricostruito, ci porta all’attento lavoro recente di tecnici, ingegneri, architetti. Francesco Amendolagine e Livio Petriccione, autori del volume sulle Tecniche e materiali per la ricostruzione degli apparati decorativi del capolavoro di Luigi Poletti (Maggioli, 2018), offrono un estratto del delicato lavoro che li ha impegnati. Massimo Totti descrive il complicato iter di cui ha avuto la responsabilità, dalla progettazione al collaudo. Arnaldo Tamburini parla del cantiere del teatro, che ha seguito. Maria Grazia Federico, Giorgio Franchini, Emma Mandelli, scrivono del restauro del foyer. Si passa a musica e spettacolo con Cronologia dell’attività musicale, che Annarosa e Giulia Vannoni hanno ricreato su materiali alquanto lacunosi, servendosi anche del lavoro inedito di Luigi Inzaghi; e con Le scelte di cartellone, analizzate e discusse da Giulia Vannoni. Massimo Marini si occupa di prosa e attori: un soggetto non tanto studiato; Manlio Masini porta agli usi dei riminesi, fra cronache e aneddoti, con Ballo e politica, mentre illustrando Il tesoro di Golconda, un fortunato spettacolo che impegnò duecento bambini nel 1940, addita una partecipazione che il teatro potrebbe sempre seguire, ma che allora avvenne sull’orlo della guerra. Alessandro Zignani critica brillantemente la Società del Quartetto. Infine, eccoci a Verdi. Dell’Aroldo tratta Annarosa Vannoni; del problema dello “Stiffelio riscaldato” Giulia Vannoni; Gianandrea Polazzi percorre i momenti del soggiorno riminese di Verdi, quando fu ospite di Maria Belmonte Baldini; Andrea Maramotti delinea un ritratto di Angelo Mariani, il grande direttore d’orchestra.
Credo che Fellini avrebbe apprezzato questo teatro ricostruito, lui che l’aveva conosciuto, e che aveva davvero varcato il Rubicone. Quanti i suoi ricordi, i suoi omaggi all’opera italiana, soprattutto ne E la nave va.
Rosita Copioli