Uomini che usano violenza sulle donne. Sulle proprie compagne, mogli, madri dei propri figli. Violenza di ogni tipo: psicologica, verbale, fisica, sessuale e spesso, purtroppo, “assistita”, cioè rivolta anche ai propri bambini. Casi che, purtroppo, sono molto diffusi e frequenti, quasi all’ordine del giorno. Per questo il tema della violenza di genere deve essere affrontato e dibattuto in modo costante. Ed è ciò che, nel nostro territorio, si è fatto. È di pochi giorni fa, infatti, la pubblicazione del primo Report dell’Osservatorio regionale sulla violenza di genere in Emilia-Romagna, che ha scattato la fotografia generale non solo delle denunce o dei casi di assistenza posti in essere, ma di tutta quella rete, fatta di centri antiviolenza, sportelli, case rifugio e centri di aiuto per uomini maltrattanti, presente sul territorio.
Un fenomeno di cui si parla spesso. Ma come se ne parla? Solitamente (e giustamente) il punto di vista considerato è quello di chi subisce violenza. Raramente, però, si guarda l’altro lato della medaglia. Gli uomini maltrattanti non sono mostri irrazionali che fanno violenza per il piacere di farlo. Sono persone con un problema profondo, radicato, e che in tal senso devono certamente rispondere delle proprie azioni, in tutte le sedi opportune, ma che vanno anche seguite e sostenute in un percorso di recupero che possa riabilitarli. Cosa prova un uomo maltrattante? Cosa lo spinge ad agire e come si può affrontare un demone del genere?
Andiamo con ordine, per vedere l’entità del fenomeno a casa nostra e per rispondere a queste domande.
I dati dell’Osservatorio: il focus su Rimini
La provincia di Rimini è importante in questo contesto. Dei 20 centri antiviolenza e 39 case rifugio presenti in regione, infatti, rispettivamente 2 e 4 si trovano nella provincia riminese, che diventa così una di quelle con la presenza più capillare rispetto ad altre di analoghe dimensioni (Piacenza, Parma, Reggio Emilia e Ferrara). Rimini attiva non solo dal punto di vista dell’assistenza, ma anche della sensibilizzazione: 9 i progetti formativi posti in essere nel 2018, secondi solo agli 11 del territorio bolognese. Tra le realtà attive a Rimini si segnala quella dell’associazione Rompi il Silenzio, che gestisce anche il Centro Antiviolenza Comunale “Spazio Vinci”, inaugurato nel 2018. Centro che ha accolto e assistito circa 250 donne, delle quali più di 200 hanno dichiarato di aver subìto una o più forme di violenza. Delle più di 170 donne che si sono rivolte al centro per la prima volta, 130 sono quelle con figli. Tra questi, più di 80 sono stati coinvolti in una qualche forma di violenza. Nelle case rifugio sono state ospitate 39 donne e 46 dei loro figli, con un dato complessivo di 85 persone costrette ad essere messe in protezione (dati aggiornati a ottobre 2018). Tanti anche gli accessi alla Casa delle Donne di piazza Cavour: 594 donne nel 2018.
Il sostegno alle donne
“Al di là dei numeri – le parole di Paola Gualano, presidente di Rompi il Silenzio – occorre dire che le storie delle donne sono sempre più complicate. Complicate non solo nel momento della messa in protezione, che rimane comunque drammatico per le donne, i minori e le nostre operatrici, ma anche nel momento in cui occorre far ripartire questi nuclei familiari. Passata l’emergenza, infatti, le donne devono poter ripartire, e da qui nascono diverse questioni da considerare: l’idoneità al lavoro, soprattutto quando ci siano bambini molto piccoli a cui pensare, oltre alle difficoltà proprio legate alla ricerca di un impiego, soprattutto in certi momenti dell’anno. Questo deve essere sottolineato: il lavoro di assistenza e di recupero per una donna che subisce violenza non si esaurisce nell’affrontare l’emergenza. La donna deve poter ripartire, ricominciare a vivere. In questo, il punto focale è il lavoro, ma è proprio qui che si incontrano difficoltà”.
Cosa significa essere un uomo violento
Come anticipato in apertura, occorre approfondire entrambi i lati della medaglia. È possibile farlo grazie al lavoro dell’associazione riminese DireUomo, uno spazio di ascolto che nasce allo scopo d’intervenire sul disagio relazionale maschile. Uno dei pazienti seguiti dall’associazione ha accettato di aprirsi su un tema così delicato, raccontando la propria esperienza con una significativa metafora, che riportiamo in modo, ovviamente, anonimo.
“Non posso parlare a nome di tutti gli uomini violenti, ma posso dire che cosa significhi per me esserlo. Per trasmettere le sensazioni che provo vorrei fare una semplice metafora. Poniamo che dobbiate portare costantemente una carriola piena di acqua dalla sommità di una collina a una valle dove una capiente e sicura cisterna la può contenere. Il pendio non è troppo scosceso, ma non c’è un sentiero ben battuto, il terreno è a tratti dissestato, sconnesso, e la discesa facilita il movimento della carriola, ma ne rende difficile il controllo. E si è bendati. Per cui durante il tragitto si può ribaltare completamente questa carriola. Oppure perdere dell’acqua di tanto in tanto. Il risultato è lo stesso. Arrivati a valle, nonostante la fatica e le attenzioni, la carriola è vuota.
Provo a tradurre questa metafora. La carriola siamo noi stessi, il nostro essere cresciuti, e diventati in un certo modo piuttosto che in un altro. Quello che abbiamo appreso e quello che abbiamo vissuto. L’acqua sono i nostri rapporti con chi amiamo. Vorremmo preservarli, curarli, riempirli, per poterci dissetare. La collina è la Vita. Una vita normale, con le difficoltà di tutti i giorni, più piccole e più grandi, ma Vita. E poi si è bendati. Perché si è bendati? A questo punto del mio percorso ancora non lo so dire fino in fondo, ma sicuramente siamo stati bendati ancor prima di imparare a fare un nodo. Tuttavia pensiamo che la benda ci aiuti, o perlomeno non sappiamo o vogliamo toglierla. Questa benda è la Violenza. La violenza che noi facciamo a chi vogliamo bene. Le urla, le liti, le scenate, ma anche i piccoli risentimenti, i rancori, e quel tentativo di non farci ferire mai ferendo noi per primi, per dimostrare di essere forti, di essere ‘I Più Forti’. E verso chi? Verso chi – pensiamo (o sentiamo?) – è più debole. Nostra moglie, i nostri figli. Sopratutto quando mettono in discussione il nostro ‘Ruolo Potente’ in casa. La violenza arriva all’improvviso ma è sempre presente. Non la cerchiamo ma è dentro le ossa. E non ci permette di vedere nella giusta prospettiva cosa facciamo a chi abbiamo intorno. Perché noi lo vediamo, sì, ma ci auto-assolviamo, ci auto-giustifichiamo. C’è sempre una causa per la violenza, ed è sempre COLPA DEGLI ALTRI. E allora è ‘giusta’, fino a che non passi un limite, che penso sia del tutto personale.
Nel mio caso è stato colpire mia moglie. Quel gesto ha fatto scivolare la benda. Non è stata tolta, è solo scivolata, ed ha fatto filtrare scenari che nella mia debolezza non potevo accettare. Rimanere solo, perdere l’affetto della mia famiglia, fare loro del male.
Per questo mi sono rivolto all’associazione DireUomo. Perché chiunque direbbe: ‘ma se questa benda non ti permette di arrivare a valle con la tua preziosa acqua, toglila no?’. Io, da solo, non ne ero capace. Anche ora non ne sono capace. Ma si impara, poco alla volta e con cadute e ricadute, a migliorare. Si impara a camminare più piano. A scegliere altri percorsi per arrivare a valle, magari più lunghi, che ci permettano di versare meno acqua possibile. E, forse, un domani a togliere questa benda. Non è semplice, ma guidati da qualcuno si può.
Come ho detto, io posso parlare di me, ma se altri, come me, si sentono di avere sempre la carriola vuota a valle per colpa della propria violenza, il mio consiglio è CHIEDETE AIUTO. Non siamo davanti ad un tribunale ma davanti a persone che vogliono aiutarci. Dobbiamo solo accettare la mano tesa. Io l’ho fatto e non intendo tornare indietro”.