Al Teatro Verdi di Trieste Il principe Igor, l’opera di Borodin lasciata incompiuta dall’autore, in un allestimento proveniente da Odessa
TRIESTE, 16 febbraio 2019 – Un’occasione riuscita solo a metà. Quella che poteva essere l’interessante proposta di un titolo rarissimo, almeno in Italia, come Knjaz Igor è invece andata in scena al Teatro Verdi di Trieste in un’edizione mutilata di un intero atto. È però una scelta che c’entra poco con l’eventuale intenzione filologica di riproporre la stesura originaria, quella lasciata incompleta dall’autore. Aleksandr Borodin, illustre accademico di chimica organica e – come amava definirsi – dilettante di musica, vi si era dedicato, anche se in modo intermittente, per ben diciassette anni, fino alla sua improvvisa morte nel 1887: aveva scritto egli stesso il libretto – ispirato a un poema epico che è un testo fondamentale della tradizione russa, Il canto della schiera di Igor – e composto in ordine sparso numerose linee melodiche, orchestrando solo alcune pagine.
La musica che oggi si ascolta è così quella revisionata da Glazunov e Rimskij-Korsakov, con i loro inevitabili interventi. Tuttavia, privare del terzo atto Il principe Igor implica che alcuni personaggi risultino poco definiti e neppure lo sviluppo drammatico dell’intera vicenda appare sempre del tutto comprensibile.
Lo spettacolo proveniva dal Teatro dell’Opera di Odessa (di triestino c’erano solo orchestra e coro, peraltro integrato da alcuni cantori della città ucraina): pur tradizionalissimo, possedeva un certo fascino retrò, illuminato da qualche sprazzo felice. Suggestivo il colpo d’occhio iniziale: la scena disegnata da Tatiana Astafieva, che punta soprattutto su colori smagliati, riecheggiati anche dai costumi, si apre con un velatino su cui è proiettata una bellissima icona della Madonna come doverosa introduzione a un’opera in cui la componente religiosa fa da sfondo alla vicenda. La regia di Stanislav Gaudasinsky procedeva lungo i binari di una consolidata routine (siamo lontani anni luce dall’odierno teatro di regia), con i diversi quadri che si succedono in modo del tutto didascalico: forse un vantaggio nel caso di un’opera poco conosciuta.
Non altrettanto lisce le cose sul versante esecutivo, perché nonostante le buone intenzioni del direttore Igor Chernetski gli strumentisti triestini sono apparsi talvolta in affanno, soprattutto nei tempi più veloci: latitavano sfumature timbriche e duttilità dinamica. Eppure si tratta di una melodia sempre accattivante e cantabile, pur con dei limiti legati a una certa convenzionalità: il linguaggio sembra guardare più al passato, e il folclore viene appiattito sulla componente coloristica senza che riesca a imporsi come rivoluzionaria novità.
Un po’ fiacco anche il nutrito cast, a cominciare dal baritono Viktor Mityushkin: ben compenetrato nel ruolo di protagonista, ma dall’eccessiva aridità timbrica. Nel grande ruolo drammatico di Jaroslavna, il soprano Anna Litvinova non è apparsa abbastanza incisiva, mentre Dmitry Pavlyuk ha affrontato con voce poco rotonda un personaggio, come quello del fratello dissoluto, prediletto dai grandi bassi del passato. Nel personaggio tenorile del figlio, che Borodin sembra modellare sulla vocalità di Gounod, Vladislav Goray ha sfoggiato le sue carte migliori nel registro superiore. Più completa e rifinita la sua innamorata, il sensuale mezzosoprano Kateryna Tsymbalyuk, così come è apparsa assai apprezzabile il soprano leggero Alina Vorokh, interprete del suggestivo canto alla luna all’inizio del secondo atto. Il bel ruolo del Khan era affrontato, con buone doti di accento ma volume fin troppo esile, dal basso Viktor Shevchenko. Ben a fuoco, dal punto di vista scenico, i due disertori ubriachi, che appaiono ricalcati sui due banditi pasticcioni del Fra diavolo di Aubert (quelli resi familiari dall’irresistibile interpretazione che ne facevano Stanlio e Ollio), nonostante una certa usura vocale del baritono Yuri Dudar e le stimbrature del tenore Alexander Prokopovich.
Se il coro triestino ha incontrato più di una difficoltà, si sono invece imposti i ballerini nelle coreografie di Yuri Vasyuchenko. La parte più riuscita dello spettacolo sono così divenute le celebri “danze polovesiane”, e non solo per merito degli atletici interpreti, ma soprattutto perché – dopo averle sempre ascoltate nella versione sinfonica – qui è stato possibile apprezzarne appieno la grandezza. Per manifestarsi in forma compiuta, richiede infatti la presenza del coro e persino dei rari pertichini vocali dei solisti. Allora diventa tutta un’altra musica.
Giulia Vannoni