Antoni strinse rapporti con i medici, gli infermieri, con le suore che operavano nell’ospedale di Holzminden, capoluogo del distretto, per avere medicinali, usufruire degli strumenti di diagnosi più “sofisticati”, ottenere il ricovero dei più gravi tra i suoi ammalati. “Andavo dalle suore in servizio alle baracche – scrive – nell’area dell’ospedale e le aiutavo in tutti i compiti che loro mi assegnavano: sostituire i materassi, cambiare le lenzuola, pulire dov’era sporco… Prima del tramonto sapevo dove c’era sporco e così potevo far occupare i letti dai miei ‘Häftlinge’ (prigionieri)”.
L’ostilità verso gli italiani
Ma avvertiva la diffidenza della popolazione: mentre attraversava il paese notò un gruppo di ragazzi che giocavano al pallone, prese parte al gioco, si divertì e intrattenne i ragazzi con qualche esercizio di abilità. “Il giorno dopo – racconta – ripassando di lì alla stessa ora ho visto che la maggior parte dei bambini rientrava di corsa in casa, e chi era rimasto sulla strada iniziava a scandire ad alta voce: ‘Maccaroni, maccaroni’, mentre dietro le persiane socchiuse di certe finestre c’erano certamente delle mamme che osservavano la scena.
A me è venuto un profondo senso di malinconica tristezza. Peccato!”. Antoni cercava un difficile colloquio civile con gli abitanti del paese, resi ostili verso gli italiani “traditori” da una propaganda assillante, ma trovava maggiore ascolto tra gli addetti alla sanità che apprezzavano la sua disponibilità, la sua precisione, la sua capacità di apprendimento rapido, la conoscenza della lingua. “All’ospedale arrivavo sempre molto presto, perché l’orario del treno non permetteva altra scelta… Di solito ad arrivare per primo era l’anziano primario, che per me assomigliava al professor Silvestrini di Rimini. Un vero nobile gentiluomo che, appena mi vedeva, chiedeva cosa c’era di nuovo”.
Brutalità e ferocia
Nel suo memoriale Antoni sorvola volutamente sui tanti episodi di ferocia nei confronti dei prigionieri da parte dei vigilanti del campo (i kapò), delle guardie e delle SS. Non può però tralasciare alcuni episodi di cui fu spettatore e protagonista. Osserva più volte, dopo averli descritti, che questo è un “comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita”, anche se non si rassegna a questo, quasi fosse ineluttabile, perché si tratta di una perdita di umanità cui bisogna contrapporre uno stile di vita diverso, animato dalla necessità di farsi carico degli altri.
Nel Lager di Wietzendorf, dove dormivano in venti su un tavolaccio ricoperto di paglia, capitava di svegliarsi al mattino con il vicino morto per denutrizione. Un amico cesenate pensò di “scuotere la coperta sporca e impolverata”, uscendo all’aperto da una finestra della baracca. Fu subito raggiunto da una sventagliata di mitra e cadde riverso, ucciso vicino al filo spinato di recinzione, attraversato dalla corrente elettrica. A Holzen, mentre Antoni lavorava in miniera nella parte più alta della collina, gli uomini spingevano dei carrelli carichi di pietre. Uno di questi improvvisamente oscillò rovesciando i sassi su un giovane militare italiano. Colpito in più parti cadde a terra, perdendo abbondantemente sangue. Antoni riuscì a fermare una camionetta per trasportare il ferito all’ospedale. “Le guardie si sono messe ad urlare minacciandomi, perché non dovevo usare quel mezzo. Loro gridavano e io, tutto sporco di sangue, alzavo al massimo la voce verso l’autista, intimandogli di accelerare la corsa e che non desse retta a quello che dicevano. Così si è salvato il ferito”.
Una piccola rivincita nei confronti del capo delle SS, un certo Busch, poteva costargli cara. Mentre si avvicinavano i contingenti militari americani e la vittoria degli alleati era ormai sicura, Busch stava abbandonando Holzen per ultimo, ritto su un’auto scoperta, imbracciando minacciosamente una machine-pistol. Antoni gli lanciò “un urlo con un gesto volgare”. Al che Busch gli sparò contro parecchie pallottole. “Non mi hanno colpito – nota Antoni – perché mi sono gettato subito a terra, nascosto dalla vegetazione”. Il racconto si chiude con un commento in tedesco: “Das Schlimmste ist vorüber. Il peggio è passato”.
La stele
Non era però ancora giunto il momento del ritorno a casa. Alla firma della resa agli alleati, l’8 maggio del 1945 a Berlino, c’erano dodici soldati ammalati che non potevano affrontare immediatamente le fatiche del viaggio e gli ufficiali americani gli chiesero di restare ad assisterli, promettendo di fornirgli medicinali e materiali sanitari. Antoni rispose affermativamente: non poteva lasciare soli i suoi giovani amici, di cui si era preso cura fino ad allora, e non poteva lasciare incompiuto il piccolo cimitero dov’erano sepolti, lontani da casa, coloro che non avevano resistito alla fatica e alle privazioni. Perciò si recò negli uffici del lager dove sapeva trovarsi la cassaforte, la fece aprire e con il denaro rinvenuto si fece approntare da un marmista di Eschershausen una stele (nella foto) che venne posta nel cimitero, che aveva recintato con “aste di legno, piante e fiori”. La stele porta una dedica, elaborata assieme al professor Sani, un latinista che sarà docente nell’università di Urbino, che recita così: “Questa pietra ricorda quelli che nella grigia prigionia mancarono, perché non rinnegarono la libertà dell’uomo. Luglio 1945”.
Il ritorno a casa
Il viaggio di ritorno di Antoni a Rimini durò tre giorni, trasportato da un treno merci, come all’andata, ma con uno spirito diverso: respirava aria di libertà. Quando uscì dall’atrio della stazione, alle quattro del mattino del 21 agosto 1945, si trovò di fronte una città spettrale, dalle strade piene di macerie, i palazzi sventrati. Lo assalì un senso di smarrimento, che si accentuò quando una persona gli chiese dove si trovasse Piazza Tre Martiri. Non seppe rispondere, perché quella che lui conosceva come Piazza Giulio Cesare, nel frattempo aveva cambiato nome. Percorse lentamente la strada sino alla via Bonsi e ritrovò intatta la sua casa. L’emozione era altissima: “Ho appoggiato tutto quello che avevo, zaino e borsa, poi mi sono seduto sullo scalino pensando che potevo aspettare il giorno e non svegliare chi dormiva. Nell’attesa mi è venuto da piangere e benché mi contenessi il più possibile, ad un certo punto dalla finestra aperta della casa di fronte alla mia si è affacciato il dottor Vitali che vedendomi si è messo a esclamare a voce alta chiamandomi per nome. Io, soffocando i singhiozzi, gli ho fatto un cenno di saluto con la mano e gli ho rivolto l’augurio di buon giorno. Lui, alzando ancor più la voce si è messo a gridare: ‘Maria, Maria!’ e quasi subito si è aperta la persiana di casa e mia madre, con mio padre, gridando il mio nome, sono venuti di corsa ad aprirmi il portone”.
Antoni riprese i contatti con Gigi Zangheri, con Alberto Marvelli, con Maria Massani, con gli amici di sempre. Cominciò a insegnare nella scuola pubblica e attivò presso il circolo ACLI del centro storico una serie di corsi di lingue straniere, molto frequentati. Partecipava alla ricostruzione del tessuto culturale e morale della città con lo stile che lo aveva sempre caratterizzato: l’efficacia, il riserbo, il senso forte dell’amicizia. Ma questa è un’altra storia, tutta da raccontare. (2 – Fine)
Piergiorgio Grassi