Con Don Giovanni si è conclusa la stagione operistica del Comunale di Bologna. Spettacolo proveniente dal Festiva di Aix-en-Provence
BOLOGNA, 19 dicembre 2018 – Nel palcoscenico quasi nudo si aggirano personaggi vestiti come ai giorni nostri, almeno all’inizio. Un po’ alla volta indossano invece abiti di foggia settecentesca, anche se durante il secondo atto torneranno nuovamente a quelli attuali. Del resto Don Giovanni non appartiene a un’epoca precisa, ma – più di qualsiasi altra opera – è da tempo entrato nel territorio del mito, dove le sottolineature storiche non sono poi così importanti.
Lo spettacolo che ha concluso la stagione 2018 del Comunale di Bologna (nato al Festival di Aix-en-Provence nel 2007) portava la firma dell’attore e regista francese Jean-François Sivadier, con le collaborazioni per la scena – ultraminimalista – di Alexandre de Dardel e per i piacevoli costumi di Virginie Gervaise. Domina il grigio di un intonaco solcato da crepe su cui qualcuno scrive in rosso la parola “libertà”; c’è qualche telo in grado di alzarsi e abbassarsi ma, più che una quinta, sembra evocare un paravento o un sudario. In questa spoglia cornice grande importanza assumono le luci – sotto forma di lampadine variopinte calate ogni tanto dall’alto – che sembrano le vere interlocutrici dei personaggi. Né mancano alcune idee felici: molto suggestiva quella di fare intuire la presenza del Commendatore entro un’enorme nicchia nella parete e che poi si rivelerà vuota (per la regia Don Giovanni non incontra l’aldilà, ma la sua partita esistenziale si gioca tutta su questa terra). Altre invece funzionano molto meno, come la presenza di un inutile giovanotto sempre incollato al protagonista, o la cameriera di Donna Elvira con cui Don Giovanni consuma un amplesso (era necessario mostrarlo?), così come le troppe sigarette fumate compulsivamente da tutti.
Questo Don Giovanni, comunque, non riesce a smarrire la sua teatralità – sarebbe forse impossibile per un tale capolavoro – e la forza della musica e dei personaggi scolpiti da Mozart e Da Ponte emerge nonostante la sommessa lettura musicale di Michele Mariotti (dopo un sodalizio di oltre un decennio, alla sua ultima collaborazione con il Teatro bolognese) che sottolinea, solo episodicamente, il vitalismo del protagonista. Se la risposta orchestrale non è particolarmente esaltante, gli interpreti – almeno quelli del secondo cast – si sono sforzati per definire al meglio i personaggi: del resto chi ha ripreso il lavoro registico si è molto concentrato sulla loro fisicità, curandone nei minimi dettagli gesti e movimenti.
Il Don Giovanni di Alessandro Luongo è vitalistico e punta molto sull’appeal fisico, dando prova – in palcoscenico – di notevole doti atletiche: da baritono lirico privilegia l’aspetto brillante del personaggio, senza che nel suo canto allignino troppe venature cupe. Accanto a lui Omar Montanari è un espressivo Leporello, perché domina perfettamente il ruolo sul piano vocale e costruisce un personaggio della dovuta complessità: non è solo un servo ma un vero e proprio alter ego di Don Giovanni, quasi fosse la sua coscienza. Ottima la prova di Ruth Iniesta: nei panni di Donna Anna è un’autentica deuteragonista. Voce solida e omogenea in tutti i registri, capace d’innumerevoli sfumature che ne valorizzano il bel timbro, affronta la scrittura vocale sempre con massima naturalezza e facilità. Del tutto a suo agio nei panni di Donna Elvira, il mezzosoprano Raffaella Lupinacci riesce a configurare un personaggio dalle numerose sfaccettature, alternando i toni quasi petulanti di donna abbandonata a quelli più accorati del finale, quando si prodiga nel disperato tentativo di redimere il protagonista. Il giovane tenore Davide Giusti dà il meglio di sé nell’aria Dalla sua pace, ma nonostante una voce apprezzabile affiorano talvolta difficoltà nel fraseggio e qualche incertezza d’intonazione, soprattutto durante i recitativi. Erika Tanaka (della “Scuola dell’opera”) è stata una Zerlina corretta e dotata di una certa verve. Al suo fianco, come Masetto, si è fatto apprezzare per la scioltezza del canto il giovane Roberto Lorenzi, mentre Stefan Kocan nei panni del Commendatore – figura cui la regia assegna una dimensione esclusivamente umanizzata – ha messo in evidenza la sua autentica voce di basso.
Nell’insieme un’esecuzione piacevole: magari non proprio in grado di rendere giustizia alla complessità di questo capolavoro, ma certo fedele all’auspicio del protagonista, «io mi voglio divertir».
Giulia Vannoni