Il capolavoro di Verdi affidato ai complessi del Mariinsky diretti da Gergiev ha inaugurato l’attività operistica del rinato Teatro Galli
RIMINI, 11 dicembre 2018 – Indovinata, almeno nelle intenzioni, la scelta di aprire l’attività operistica del Teatro Galli con un titolo verdiano. Del resto, coprotagonista di Simon Boccanegra è il mare, continuamente evocato dalla musica di Verdi, che rende questo capolavoro adattissimo a una città come Rimini. Sarebbe stato forse preferibile cominciare da Aroldo, che ha avuto la sua première proprio in questo Teatro, ma – a ben guardare – le caratteristiche delle due opere non sono poi così distanti. In entrambi i casi si tratta di seconde stesure di lavori precedenti: la prima versione del Boccanegra è del 1857 e oggi, come appunto in questa occasione, si ascolta di solito la seconda (1881), mentre Aroldo può essere considerato una riscrittura del precedente Stiffelio. L’esecuzione è stata affidata a orchestra, coro e solisti del Teatro Mariinsky provenienti da San Pietroburgo (nella geografia verdiana, località fra le più significative, dove nel 1862 ebbe il suo battesimo La forza del destino) e al loro direttore Valery Gergiev, che vantano una lunga consuetudine con Rimini.
Comunque la massima curiosità si concentrava sul primo effettivo test di acustica, superato in modo del tutto positivo, del nuovo Teatro: per la prima volta veniva utilizzata la buca orchestrale, dato che nelle serate precedenti – compresa La Cenerentola semiscenica dell’inaugurazione – gli strumentisti avevano sempre trovato posto in palcoscenico.
Lo spettacolo di Andrea De Rosa (che in seguito andrà a Genova), con i costumi di Alessandro Lai, le suggestive luci e le riprese video di Pasquale Mari, privilegiava le tinte scure – dalle quinte ai costumi – in sintonia con la cupa atmosfera di un’opera in cui predominano le voci gravi. In realtà l’intervento registico era ridotto al minimo: l’unica trovata, discutibile, è quella di trasformare Maria (la figlia morta di Jacopo Fiesco) in un fantasma, che compare ogni tanto e, soprattutto, prima di morire emette un grido non certo scritto in partitura. Lasciare poi, durante l’epilogo, il coro in scena – che non dovrebbe essere visibile, perché rappresenta una sorta di lontana eco, riverbero di una straziante lontananza – mentre il protagonista muore non è stata una soluzione troppo felice: stupisce, semmai, il fatto che il direttore l’abbia avallata.
D’altra parte Gergev ha puntato soprattutto sulla cura del suono, valorizzando i magnifici strumentisti del Mariinsky (basterebbe citare la sbalorditiva intonazione dei corni), ma dando l’impressione di una certa estraneità agli aspetti intimisti dell’opera e al ripiegamento introspettivo del protagonista: il direttore non sembra cogliere le tensioni laceranti e i conflitti di una vicenda dove gli eventi politici s’intrecciano con quelli umani, e neppure quegli aspetti crudi e persino barbarici legati agli intrighi di potere. Non si capisce poi perché abbia fatto cantare l’All’armi! che chiude il secondo atto a Simone, Gabriele e Amelia anziché al coro fuori scena: forse per una malintesa visione di canto “all’italiana”, il direttore ha voluto lasciare un gratuito primo piano ai tre solisti. Una simile lettura, concentrata soprattutto sull’aspetto esteriore e caratterizzata da una certa piattezza dinamica, produce inevitabili conseguenze sugli interpreti vocali, soprattutto in termini di fraseggio.
Protagonista nel primo cast, Vladislav Sulimsky, baritono di voce scura, corposa e timbratissima che – pur senza grande varietà di accenti – ha saputo configurare un Simone attanagliato dalla solitudine dell’uomo di potere piuttosto che ripiegato sul tormento interiore del padre e dell’utopista. Molto apprezzabile il secondo baritono (di complessione assai più lirica rispetto al collega) Roman Burdenko, che nella première ha disegnato un efficace Paolo Albiani, malvagia eminenza grigia, e nella replica ha vestito i panni del protagonista, sfoderando minore ampiezza sonora di Sulimsky, ma anche una rimarchevole duttilità interpretativa. Ora monocromo ora sopra le righe, invece, l’Albiani della seconda sera (Efim Zavalny). Un soprano, peraltro illustre, come Tatiana Serjan – voce matronale per natura e, oggi, anche alquanto usurata – non è poi certo adatta al ruolo quasi adolescenziale di Amelia. Ma neppure Irina Churilova che l’ha sostituita l’indomani, pur dotata di una vocalità lirica più adeguata al ruolo, ha brillato, a causa di una emissione piuttosto pallida quanto a colore e volume. Nei panni di Fiesco il basso Mikhail Petrenko, dal canto un po’ angoloso, è stato un Fiesco algido e spietato, mentre il suo sostituto Stanislav Trofimov mostrava un’emissione del tutto scompaginata. Otar Jorjikia si è ben destreggiato nella variegata scrittura tenorile – dal lirico al focoso – di Gabriele Adorno, imprimendo ardore e slancio giovanile al personaggio, mentre non si può dire altrettanto del tenore della seconda sera, Najmiddin Mavlyanov. Apprezzabili i comprimari a cominciare dal tenebroso basso Gleb Peryazev, perfetto nei panni del congiurato Pietro, mentre una menzione speciale spetta al lugubre coro, preparato da Andrei Petrenko. A tutti i cantanti va comunque riconosciuto il merito di una nitida e scolpita dizione italiana.
Giulia Vannoni