Giovani con la valigia. È il tema dell’emigrazione giovanile, un fenomeno che in anni recenti è stato spesso al centro del dibattito pubblico: ragazzi che compiono la difficile scelta di lasciare la propria casa, la propria zona di comfort fatta di abitudini, affetti e amicizie, per avventurarsi in un’altra realtà, in cerca di nuove esperienze o maggiori opportunità per il proprio futuro. Un tema di cui si è scritto e detto tanto, e che non è di certo una novità. La notizia, infatti, è un’altra: al giorno d’oggi, i giovani che maggiormente preparano la valigia in Emilia-Romagna sono quelli del nostro territorio, i riminesi.
A rivelarlo è una ricerca condotta dall’Istat (e riportata da Il Sole 24 Ore) che ha analizzato le cancellazioni dall’anagrafe dei cittadini in partenza in tutto lo Stivale, realizzando una vera e propria mappa dell’emigrazione italiana, utilizzando come indicatore il confronto tra il valore assoluto degli emigrati e la popolazione di appartenenza, per 10mila residenti. Secondo la ricerca, concentrandosi sulla fascia d’età 18-39 anni, ossia quella in cui lo spostamento è solitamente dovuto per motivi di studio o di opportunità lavorative, emerge che nel 2016 sono stati 42,61 i giovani ogni 10mila abitanti a cancellarsi dall’anagrafe di uno dei comuni della provincia di Rimini per trasferirsi all’estero. Un primato assoluto in Regione: i giovani in partenza per l’estero, sempre nel 2016, nel capoluogo bolognese sono 38,71 ogni 10mila abitanti, 33,43 a Ravenna e nella vicina Forlì-Cesena addirittura dimezzano, 24,43. Inoltre, più in generale, la provincia riminese si posiziona tra le prime 40 d’Italia in questa particolare classifica, che ha visto, nell’arco di un solo anno, trasferirsi all’estero ben 60mila giovani da tutto il Paese.
Dati importanti, che fanno riflettere. Ma da cosa può essere dovuto un fenomeno così accentuato?
Sempre secondo lo studio pubblicato dall’Istituto Nazionale di Statistica, è “impossibile dire se questo sia correlato a un fenomeno di disagio dovuto a mancanza di opportunità in patria o, invece, a un sintomo di vivacità culturale che spinge i nostri connazionali a confrontarsi con sfide personali oltre confine”.
Crisi e disoccupazione giovanile imperante? O la forza attrattiva delle esperienze oltre confine e la moderna facilità di viaggiare hanno un peso decisivo in questo fenomeno? Probabilmente, come sempre, la verità si trova nel mezzo.
“Per i laureati riminesi poche opportunità”
Primo Silvestri, direttore del mensile TRE-Tutto Romagna Economia, riflette sui numeri dell’emigrazione giovanile pubblicati dall’Istat, analizzandone, nello specifico, le possibili cause, anche in rapporto alle caratteristiche strutturali dell’economia locale riminese.
Nella statistica si afferma che è “impossibile dire se questo sia correlato ad un fenomeno di disagio dovuto a mancanza di opportunità o, invece, ad un sintomo di vivacità culturale che spinge i nostri connazionali oltre confine”. Cosa pesa di più secondo lei?
“Gli italiani residenti all’estero, e iscritti all’AIRE (Anagrafe Italiana Residenti all’Estero), quindi non tutti, che erano poco più di 3 milioni nel 2006, hanno superato quota 5 milioni a fine 2017, l’8,5% dell’intera popolazione nazionale, con un aumento di ben il 65% nell’ultimo decennio. Solo nel 2017 hanno lasciato l’Italia, per dirigersi prevalentemente in altri paesi d’Europa, 130mila persone. Il 37,4% di chi è partito ha tra i 18 e i 34 anni. I giovani adulti, ovvero le persone tra i 35 e i 49 anni d’età, sono il 25% del totale (poco più di 32 mila persone). Che la crisi c’entri qualcosa è più di una certezza”.
Per quanto riguarda Rimini?
“Gli iscritti AIRE provenienti dalla provincia di Rimini sono attualmente circa 23mila, la cifra più alta della Romagna e pari al 7% della popolazione. Di questi, 10mila provengono dal Comune di Rimini, quello col numero più alto in Regione dopo Bologna, 2mila circa da Riccione e poco più di mille da Verucchio. E per dire che anche qui la crisi sia rilevante basta guardare i numeri: nel 2007, quindi prima che scoppiasse la crisi, le richieste di cancellazione all’anagrafe per trasferimento all’estero, da qualsiasi comune della provincia, erano 247, a fine 2016 sono diventate 982, divise quasi a metà tra uomini e donne. Nel tempo della crisi i riminesi espatriati sono, in sintesi, cresciuti di quattro volte”.
Quanto influisce la natura propria della nostra economia locale, turistica e quindi stagionale? Può essere un elemento che si scontra con le esigenze di stabilità dei giovani?
“Abbiamo visto che la crisi ha avuto il suo peso, ma esistono debolezze strutturali che preesistevano e che la crisi ha solo accentuato. Per troppo tempo abbiamo sopravvalutato il turismo, che è un bene certamente da conservare e migliorare, riducendo però quasi al silenzio la manifattura, anche per responsabilità degli imprenditori. Dimenticando che nel nostro turismo si lavora in media 4 mesi l’anno, contro i 12 dell’industria, ed il salario medio giornaliero è di 60 euro, quando nella manifattura è di 90 euro (dati Inps). Un sistema economico così strutturato produce una domanda di laureati che è la più bassa della Regione, in genere sotto il 10% delle assunzioni. Stiamo parlando di 1.500-1.600 giovani residenti che si laureano ogni anno, a fronte di una domanda da parte delle aziende che raramente arriva a 500. Una forbice che viene da lontano, e che si traduce in poche opportunità. Non è un caso che negli ultimi sei anni le imprese fondate da giovani under 35 siano calate, a Rimini, di mille unità. Colpa anche della mancanza di gestione del mercato del lavoro, di cui nessuno sembra volersi farsi carico”.
Dare maggiori opportunità ai giovani significa rilanciare l’economia locale. E dare segnali in questo senso. In quest’ottica, come giudica la “fuga” dei soci da Uni.Rimini? Quanto può influire questo, sia economicamente sia a livello di percezione da parte dei giovani riminesi?
“Lo sviluppo di Rimini e della Romagna va interamente riformulato. Per cominciare basta farsi una domanda molto semplice: vogliamo continuare a essere la parte ritardataria dell’Emilia-Romagna o aspiriamo a metterci quanto meno in pari con la componente emiliana? Se vogliamo recuperare le distanze dobbiamo pensare a come promuovere e incentivare attività di alto valore aggiunto. Che producono, cioè, più ricchezza. Occorrono infrastrutture, investimenti, tanta ricerca e anche tanta innovazione. Il turismo va reso più competitivo (non è un caso se oggi abbiamo le stesse presenze di vent’anni fa), sviluppando anche nuovi segmenti di offerta: la manifattura va non solo supportata, ma vanno favoriti nuovi insediamenti, soprattutto quella che meglio compete con l’estero. È un progetto che richiederà almeno un decennio, ma solo così miglioreranno le opportunità per tutti, compresi i giovani che sono, demograficamente, sempre meno.
La fuga dall’Università, sbagliata in una economia sempre più fondata sulla conoscenza, è anche sintomo di una presenza ancora poco incisiva. Anche per la mancanza di facoltà tecniche, come corsi di ingegneria, che avrebbero potuto essere molto utili alle nostre imprese manifatturiere”.