“La parola di Dio era rara in quei giorni”, ci dice il profeta Samuele. Ma forse si sta rarefacendo anche oggi … o meglio si è poco avvezzi ad ascoltarla, che è come se non ci fosse.
”Mi sento un po’ solo – dice don Andrea Tommasoni diacono -: nessun prete prima di me lo scorso anno e nessuno dopo di me nei prossimi due”. Che sia perché Dio non parla più o perché i giovani sono un po’ sordi di orecchie?
Don Andrea, diacono dal 29 ottobre dello scorso anno, diventa prete questa domenica 30 settembre.
E poichè abbiamo desiderio di conoscerlo ci avviciniamo a lui con una certa curiosità.
”Sono nato a Cesena 27 anni fa, il 4 marzo. Ho sempre vissuto a Savignano, studiando presso le scuole pubbliche e frequentando il catechismo nella parrocchia di Santa Lucia. Sono stato formato alla fede in una prima esperienza con gli Scout, come lupetto, quindi nei gruppi di Azione cattolica, ACR e ACG. Ho conseguito la maturità scientifica al Liceo Marie Curie di Savignano. Ho vissuto in famiglia coi miei genitori e, dietro di me, con due fratelli”.
Vita di famiglia, vita di gruppo, vita in parrocchia: che cosa comportava tutto questo?
“Comportava impegno nello studio, amicizia coi compagni, attività formative, di servizio e di svago… Il servizio tonificante coi bambini del Merlara… Le consuete cose (belle) che si fanno in un gruppo e qualche bisticcio coi fratelli in casa, tanto per tenere attenti i genitori”.
E l’idea di una vocazione consacrata dove e quando è nata?
“Pensieri nebulosi di vocazione li sentivo vagare nella mia mente già negli anni delle Medie. Ma è stato in una veglia di Pentecoste, nel 2006 in seconda superiore, che la mia mente si è aperta in modo esplicito e determinato al cammino vocazionale. Ed è stato un mio amico, forse inconsapevolmente, ad aprirmi gli occhi, quando mi ha detto: Sai, ti vedo bene come prete. Dopo di ché sono state determinanti le figure dei giovani preti che si sono succeduti in parrocchia, in particolare don Massimiliano”.
Ma da quella Pentecoste alla scelta esplicita della vita consacrata ce n’è di strada da fare.
“Alla fine del Liceo dovevo comunque scegliere l’indirizzo di studi e io non ho avuto esitazioni nello scegliere la facoltà di teologia. Così sono entrato in Seminario a Rimini. Avevo 19 anni. A Rimini ci sono stato per tre anni: un po’ di propedeutica, la frequenza dei corsi all’Istituto Superiore di Scienze Religiose, la vita comune con gli altri seminaristi (allora c’era ancora qualche seminarista!). Poi, dopo la candidatura al diaconato e presbiterato, sono andato a Bologna per il corso quadriennale di teologia. Lì è cambiato un poco il registro”.
Rimini e Bologna: che cosa ti hanno dato?
“Sicuramente l’esperienza del Seminario a Rimini mi ha aperto alla diocesanità: la mia esperienza di Chiesa, fino ad allora, era stata limitata a quella parrocchiale o poco più. L’esperienza di Bologna, anche se non priva di difficoltà, mi ha ulteriormente aperto l’orizzonte, facendomi conoscere, attraverso i compagni di studio, altre realtà di Chiese, dandomi un’idea più concreta di Chiesa universale”.
È consuetudine nella nostra diocesi che i seminaristi facciano esercizi di pastorale durante gli studi di teologia; tu cosa hai fatto?
“Esperienze diverse: il primo anno sono rimasto in parrocchia a Savignano come educatore ACR, poi ho fatto attività vocazionale col Seminario, presenza nelle parrocchie della Grotta Rossa e di Sant’ Aquilina, con gli Scout a San Mauro Pascoli, con l’ACR a San Gaudenzo, lo stage pastorale a San Giuliano-Celle e il diaconato a Villa Verucchio”.
In poche parole hai girato per tutta la diocesi.
“Quasi. Sono partito da Savignano con don Pierpaolo Conti e sono fino a Villa Verucchio ancora con don Pierpaolo”.
Adesso però entriamo un po’ più nel cuore della questione: da dove nasce questa vocazione di prete?
“La spinta più immediata mi è venuta dai preti che avevo davanti come esempi di vita: perché non fare la loro stessa scelta? Nello stesso tempo è stato fondamentale il cammino interiore di rapporto col Signore, sia individuale, sia nel cammino associativo. Allora ho cominciato a frequentare e apprezzare la Scrittura. Sempre più sentivo la maternità della Chiesa e desideravo essere un buon figlio”.
Ripensamenti?
“Per certi versi sono all’ordine del giorno, ma prevalgono sempre le cose belle e positive”.
Rinunce?
“La rinuncia più ovvia, e che può sembrare anche la più impegnativa, è quella di formare una famiglia propria. Però sento anche che una famiglia mia mi starebbe un po’ stretta, mi farebbe sentire un po’ chiuso. Preferisco una famiglia allargata ad una parrocchia o comunità per essere a disposizione di tutti. Per altre cose non mi manca nulla”.
Come ti pensi e ti vedi da prete?
“Grazie a Dio, il futuro lo conosce solo Lui. Logisticamente mi vedo a Villa, almeno per un anno. Ma più importante è come vorrei essere: vorrei poter testimoniare sempre con la vita l’amore del Signore; vorrei avere la gioia di vedere crescere nella fede tante persone, tutte quelle che incontrerò; vorrei sperimentare la molteplicità e la fecondità di una ampia vita pastorale”.
Che oggi siano pochi i giovani a dire un sì incondizionato al Signore ci fa apprezzare ancora di più quei pochi che non si tirano indietro davanti alla sfida della vita consacrata. Dunque non piangiamo per la scarsità del raccolto, ma rallegriamoci per quel frutto che ancora ci è regalato.
Egidio Brigliadori