Al XVI Giovanni Paisiello Festival prima esecuzione in epoca moderna dell’opera Le gare generose nel bell’allestimento di Isa Traversi
TARANTO, 14 settembre 2018 – Il mistero del titolo, Le gare generose, verrà sciolto solo nelle ultime battute del libretto: per un’opera comica, con disvelamento finale, non è grave e, anzi, aggiunge un ulteriore elemento di suspense. Nella commedia per musica in due atti di Giovanni Paisiello, eseguita per la prima volta a Napoli nel 1786 (dunque, del tutto contemporanea alle Nozze di Figaro), si avverte lo spirito del tempo e l’eco di una grammatica musicale che Mozart aveva saputo interpretare meglio di chiunque altro. Qui, la vicenda ha contorni assai meno complessi e rivoluzionari, ma è impossibile non notare nel libretto di Giuseppe Palomba (tratto, a sua volta, da Amiti e Ontario di Ranieri de’ Calzabigi, 1772) qualche analogia con Le nozze, sebbene l’aspetto comico-grottesco sembri avere la meglio sui risvolti psicologici: semmai ci pensa la musica di Paisiello a impreziosire di sfumature quanto nei versi rimane sottotraccia. L’esile trama ruota attorno a una coppia di italiani in fuga sotto mentite spoglie e finiti misteriosamente a fare i servitori a Boston: di lei s’invaghisce il padrone di casa, di lui la nipote. Smascherati, alla fine otterranno il perdono e la circostanza innescherà una vera e propria gara (da cui il titolo) fra i vari personaggi per chi appare più magnanimo.
Titolo di punta nel cartellone del sedicesimo Giovanni Paisiello Festival, Le gare generose sono andate in scena (una prima esecuzione in epoca moderna) nel suggestivo chiostro di Sant’Antonio a Taranto, dove è nato il compositore. Isa Traversi – che firma regia, scene e costumi, mentre le luci sono di Tommaso Contu – ha messo a frutto la sua lunga esperienza di coreografa per realizzare uno spettacolo che funziona come un perfetto ingranaggio a orologeria, ma sempre animato da un palpito interiore, e che prende forma, soprattutto, nel totale rispetto della musica: ogni gesto degli interpreti è soppesato, ogni postura accuratamente studiata in modo che le radici comiche dell’opera vengano valorizzate dalla scelta di tempi e ritmi precisissimi. Sul piano visivo la regista punta soprattutto su uno straniamento che appare del tutto speculare alla vicenda e ai suoi personaggi: l’improbabile cornice americana del libretto viene suggerita da una scena fissa legata alla Pop Art (che in anni recenti ha codificato il concetto di forme artistiche accessibili a tutti, come un tempo faceva l’opera), dove troneggia l’icona di Paisiello, mentre i sei personaggi indossano sontuose vesti fine settecento e maneggiano, a seconda dei casi, oggetti d’epoca o del tutto contemporanei. L’accurato lavoro sul corpo dei cantanti ha dato poi ottimi frutti, per cui ogni interprete delinea con una fisionomia ben definita il proprio personaggio, al di là dei tratti un po’ evanescenti della drammaturgia di Paisiello e del suo librettista. Nonostante il grembiule da cameriera, il soprano Marianna Mappa, voce suadente e buoni mezzi vocali, è un’autorevole Gelinda, quasi regale, consapevole che la sua avvenenza le fa tenere le redini del gioco, con i tre uomini ai suoi piedi: è molto suggestiva la scena in cui, muovendo dall’alto fili immaginari, fa spostare gli altri personaggi come fossero marionette. Accanto a lei Bruno Taddia interpreta Bastiano, il servo partenopeo, che – da bravo buffo – deve cantare in dialetto: poco importa se il suo non è un napoletano doc, se ne avvantaggia la finzione teatrale, anche grazie alle notevoli capacità istrioniche del cantante, che ampiamente compensano un’emissione un po’ cruda. A dispetto della giovane età, il basso Stefano Marchisio ha interpretato in modo convincente sul piano vocale e scenico il maturo mister Dull, gentiluomo dai vezzi settecenteschi. Il contralto Giulia Mattiello, timbro arido ma molta musicalità, nei panni della nipote zitella disegna una svagata gentildonna anglosassone intenta alla lettura e ai pennelli, mentre il soprano Maria Luisa Casali, un bel lirico di coloratura, è perfetta nei panni di miss Nab, la viziata e un po’ crudele – basterebbe pensare a come si accanisce sulle sue Barbie – figlia di mister Dull. Il giovane tenore Manuel Amati ha affrontato con emissione sicura il ruolo di Don Berlicco: un opportunista e vanesio italiano disposto a cambiare idea a seconda delle necessità. A completare l’insieme c’è poi un contro-pubblico, formato da alcuni personaggi di Taranto, tutti abbastanza particolari e connotati, che siedono con le spalle rivolte alla scena e con i loro sguardi indagatori costringono il regolare pubblico a riflettere sulle funzioni sociali del teatro. Un’idea registica “forte”, che alimenta lo spessore di quel gioco di specchi tra i personaggi che Paisiello accenna soltanto e la regia recupera come vera e propria lente interpretativa.
Il direttore Giovanni Di Stefano fa suonare correttamente l’Orchestra del Giovanni Paisiello Festival, che lo ha ben corrisposto attraverso un andamento brillante e scorrevole, nel rispetto stilistico di una musica largamente debitrice della lezione di Haydn. Una lettura che riesce a far convivere la verve comica e l’andamento elegiaco in un equilibrio sottile, difficile da raggiungere, ma che da sempre rappresenta l’aspetto più affascinante del compositore tarantino.
Giulia Vannoni