“Se Dio c’è e se è vero che Gesù esiste, ecco: penso che le suore che ho incontrato siano la testimonianza vivente di come lui vorrebbe che un cristiano vivesse”. È con queste parole forti che Marco comincia a raccontarmi del suo viaggio, un viaggio con la “v maiuscola”. E nel parlare, ci mette così tanto entusiasmo che mi è impossibile non incollarmi al racconto con occhi spalancati e orecchie aperte. Ha un’energia travolgente che sembra, per un po’, trascinare anche me – immaginariamente – nel mezzo di quella missione sperduta laggiù, verso la fine del mondo, come direbbe Papa Francesco.
Marco Dellapasqua è partito il 25 aprile scorso per il Mozambico, senza pensarci troppo. “È un’esperienza che prima o poi, nella vita, avrei voluto fare. Ma non avevo mai progettato nulla di concreto. Un giorno, a Santarcangelo, mi sono trovato a parlare con suor Chiara e suor Daniela (suore francescane della Sacra Famiglia, ndr) <+cors>e in pochi minuti ho pensato che fosse arrivato finalmente il momento. Così, controllato il passaporto e chieste le ferie (subito accordate dal mio datore di lavoro) ho acquistato il biglietto e sono volato. Destinazione: Mozambico, missione di Charre, a Beira”.
Questa missione è una tra le più povere, e rientra tra quelle che quest’anno hanno potuto godere degli aiuti dell’ultimo Campolavoro (aprile 2018). Con i 3mila euro ricevuti, le suore hanno finanziato il progetto “Imbastiamo sogni”, dando vita a una scuola di sartoria per giovani ragazzi, che già da qualche tempo lavorano in autonomia presso le loro famiglie. Producono cuscini, borse, astucci, zaini e abbigliamento scolastico. Il laboratorio e la scuola di cucito si trovano nella missione, dove 25 ragazze hanno anche la possibilità di vivere assieme e studiare.
“La vita di queste sorelle è l’incarnazione di quello che lui ha predicato, parlando alla gente – continua Marco – e la cosa più bella che mi è rimasta da questa esperienza è il loro spirito. La missione è davvero umile; è incredibile toccare con mano come il sorriso delle suore, e quello delle persone che vengono aiutate, sia coinvolgente, e di come la loro felicità, pur non avendo praticamente nulla, sia contagiosa”.
Chiedo a Marco di cominciare parlandomi del viaggio: “Sono atterrato a Tete, una provincia del Mozambico centrale. Il primo giorno sono rimasto a casa del Vescovo (che è di Gambettola!) e poi sono cominciati i 300 Km per arrivare a destinazione. Può sembrare una distanza breve, ma ci sono volute oltre 10 ore per percorrerla: solo 70 Km sono di strada asfaltata, tutto il resto sono buche. E parlo di buche grandi, che fanno sobbalzare automobili, carri e tutto quanto ci sta sopra. Passandoci, mi venivano in mente le tante volte in cui mi sono lamentato per un asfalto messo male, qui da noi”.
Finalmente, dopo questo percorso accidentato, ecco la missione. Marco ci arriva assieme a Suor Daniela, partita con lui dall’Italia. Portano alle suore qualcosa per loro, per la loro igiene, giochi e vestiti per i più piccoli, dolciumi e medicinali. E portano con loro anche del materiale elettrico (in particolare, faretti dotati di pannello solare), che la ditta dove lavora (Gruppo Carli, di Pietracuta) ha regalato e che serviranno per illuminare e rendere un po’ più agevoli i locali e i servizi dell’internato delle ragazze e della missione.
Marco ha fatto molte fotografie per cercare di testimoniare la differenza che c’è tra nord e sud del mondo: “Mi sembrava di essere in un film, la vita della gente che ho conosciuto trascorre tra quel poco lavoro che ha e la fatica di trovare qualcosa da mettere insieme per il pranzo e la cena, ogni giorno. Si vive in abitazioni povere, si dorme per terra, sulle stuoie. Si cucina sulle pietre, sul fuoco vivo. Non ci sono divertimenti, raramente ci si ritrova. Solo alla Messa ho visto tante anime; lì davvero si riuniscono tutti, ci sono anche tantissimi bambini e la funzione è molto partecipata”.
Tutto questo si vede anche dalle foto che Marco ha scattato; e si percepisce soprattutto la gioia negli occhi dei bambini, felici di ricevere un piccolo gioco o, semplicemente, di essere fotografati: “Non hanno specchi – prosegue – quindi una fotografia, per loro, è una scoperta ogni volta. Quando qualcuno si accorge che stai mettendo a fuoco qualcosa, subito si aggiunge festoso al gruppo. E poi, ognuno, non vede l’ora di cercarsi e di rivedersi nelle immagini”.
Calarsi nella vita di tutti i giorni per Marco è stato, tutto sommato, piuttosto facile. Appena arrivato, ha dato notizie a casa e poi ha spento il cellulare: “Solo in questa maniera potevo vivere appieno questa esperienza. Stando al telefono mi sarei certamente perso qualcosa di importante”.
Continua a raccontarmi della vita quotidiana, della giornata regolata unicamente dal sole, che comincia alle 5 del mattino, quando le suore si alzano e pregano e partecipano alla Messa, assieme ai padri. Alle 7 inizia la scuola e quando cala il sole tutto finisce: la luce nella missione è presente solo poche ore al giorno. Non ci si preoccupa di come ci si veste, di cosa si mangia: la gente consuma soprattutto polenta con fagioli o verdure, ogni tanto qualche gallina. Poco altro. Nella missione, Marco ha mangiato cibi colombiani preparati dalle sorelle che provengono dalla Colombia, poi pesce, animali da cortile e riso. Per le strade ci sono dei mercati, “ma non i mercati come li intendiamo noi. Mercato, per loro, è una vendita su banchetti improvvisati o per terra: alcuni preparano il pane (che anche le suore della missione acquistano), altri rivendono cose comprate poco prima. Le strade sono polverose, e tutto si svolge lì, tra la povertà più assoluta”.
Sconvolgente è la parte del racconto sugli ospedali. È andato a trovare alcune donne che avevano partorito da poco. Ha trovato una sala parto che difficilmente noi possiamo anche solo immaginare: lettini sporchi, rivestiti di coperte e stracci ancora più sudici, strumenti (quei pochi) ovviamente non sterilizzati, mamme e neonati in luoghi che di igienico non avevano assolutamente niente.
Marco si ferma col suo racconto e mi mostra oltre un centinaio di scatti che testimoniano le parole che ho sentito: ragazzini sorridenti e felici che stringono in mano un dono appena ricevuto, carri stracolmi di poveri beni che rappresentano le uniche ricchezze di questa gente, polvere e sassi dappertutto, ma principalmente sorrisi. Gli piacerebbe molto tornare, ma non sa ancora se lo farà. È presto per dirlo. Al momento è in contatto con le suore che gli raccontano i guai quotidiani e le necessità.
Gli piacerebbe poter mettere insieme qualcosa per aiutarle, poter rimediare altri soldi per acquistare, ad esempio, qualche macchina da cucire per ampliare il progetto della scuola. La comunità santarcangiolese si è sempre dimostrata grande di fronte alle necessità: sono sicura che quando Marco organizzerà qualcosa, saranno in tanti a sostenerlo.
Roberta Tamburini