Sulla porta della casa compare una grande scritta: “Beati i misericordiosi”. All’interno ci sono 15 “recuperandi”, ovvero carcerati impegnati in un percorso di recupero, diversi volontari e il responsabile Matteo Giordani (nella foto a dx) con la moglie Rosanna. Questa è “Casa Madre del Perdono”, sulle colline riminesi della Valconca, una struttura nata dal costato dell’associazione Papa Giovanni XXIII. Il fiocco azzurro dieci anni fa. Per festeggiare il traguardo, domenica 9 settembre è festa: ritrovo alle 16, la messa alle 16.30, storie e testimonianze dei protagonisti, apericena a buffet quando l’ora è quella giusta, intorno alle 19. “A tutti coloro che entrano chiediamo un colloquio con un recuperando e di adottarlo nella preghiera” dice Giorgio Pieri. Nel 1998 c’era lui a guidare questa avventura in fieri, ora ha lasciato il testimone nelle mani di Matteo ed è filato su a Coriano, a Casa Betania, luogo storico per la Papa Giovanni (qui si fece carne la prima casa famiglia), per riproporre una Casa e il modello Cec che la contraddistingue. Cec, ovvero Comunità educante con i carcerati. “Comunità educante con i carcerati e non per i carcerati. – rilancia Giordani, 39 anni e un diploma da geometra riposto da qualche parte – Perché l’uomo non è il suo errore, come suggeriva don Oreste. Attraverso questa esperienza, tante persone, e non solo detenuti, si sono ritrovati, ad iniziare da Giorgio, da me e dai numerosi volontari”<+testo_band>. Attualmente sono una quindicina i “recuperandi”: sono incamminati verso questo percorso di risalita insieme ai volontari e agli educatori. Il 50% è straniero, percentuale tipica delle carceri italiane. “Ma sono anche quelli che nessuno vuole, che non hanno altre possibilità”<+testo_band>. L’età degli ospiti va da 22 a 62 anni. In totale, in due lustri a Montescudo sono stati accolti 300 ragazzi. Alcuni, presi dalla disperazione, sono fuggiti, altri sono fuggiti e basta ma si tratta di numeri risibili, all’inizio 4/5 l’anno, nelle ultime stagioni ancora meno. Giordani non poteva finire che qui, alla Casa Madre del Perdono. Il carcere luogo di sofferenza per lui ha significato incontrare la persona della sua vita. “Lei era volontaria in carcere a Como con altra associazione. – racconta l’attuale responsabile della Casa – Seguiva un detenuto conosciuto in carcere, che io avrei dovuto ospitare in Casa. Si è fermata da noi per questo motivo, nei giorni trascorsi qui ci siamo conosciuti e innamorati”. Rosanna aiuta saltuariamente il gruppo sartoria, nel carcere di Pesaro. La struttura, gli strumenti educativi, la vivace presenza di volontari, il progetto Cec è già tutto avviato. “E lo era anche quando sono arrivato io, 8 anni fa. – ammette Matteo – È importante che quel progetto si traduca nella vita quotidiana, sia vero nella vita tutti i giorni, applicato vivendo la condivisione coi ragazzi”. A giudicare anche dai numeri, il progetto funziona. E fa crescere. Dalla costola della casa di Taverna sono nate quella di San Facondino, sempre nel riminese, e altre esperienze: a Cuneo, Vasto, Forlì e in Toscana. Esiste una presenza anche in Camerun, dove l’APGXXIII sta avviando un Cec. “Se guardo la mia vita, è come se per 30 anni mi fossi solo preparato ad abitare questa casa e a vivere questa esperienza. – prosegue il responsabile – Come i recuperandi, sono influenzato dal mio passato e ci devo lavorare”. Qui ci si può ritrovare. Attraverso un cammino nel quale Casa Madre del Perdono è una tappa fondamentale. Per le persone ma anche – in modo più allargata – per un intero territorio, per le parrocchie che hanno conosciuto questa esperienza educativa di riscatto, per la Diocesi stessa. “Tanto è stato fatto, tanto è ancora da fare, cioè si può ancora camminare insieme. La realtà della Casa è anche un messaggio per l’esterno, per passare da una società vendicativa ad una società che sappia perdonare”. Una società che si deve educare alla realtà del perdono, l’unico antidoto possibile per sconfiggere il male che c’è attorno a noi”.
Paolo Guiducci