Ormai è chiaro. La Romagna “solatia dolce paese”, secondo l’immagine pascoliana, allo stereotipo piadina e Sangiovese, liscio e ombrelloni, presenta anche tante altre facce. Una di queste è ben più in ombra, ma come un inquietante fil rouge attraversa i secoli e la storia di questa terra (e non solo).
Se la più famosa è senza dubbio quella capitanata da Benito Mussolini, che alla testa di circa 25.000 camice nere conquistò il potere nell’ottobre del 1922 aprendo il ventennio di dittatura del fascismo, quella marcia non è stata l’unica avanzata che ha visto protagonista la Romagna, in prima fila in moti che hanno attraversato i secoli. Questa terra si è messa in moto sin dall’antichità romana (dal leggendario Brenno al più famoso Giulio Cesare del “Dado è tratto”), per riprovarci con cognizione di causa nel Risorgimento (il tentativo di Giuseppe Sercognani dopo i moti del 1830-31 e quello di Garibaldi arenatosi a Mentana), sino appunto al fascismo. Personaggi, luoghi e ideali molto diversi tra loro, accomunati però dall’appartenenza alla stessa regione e mossi dall’identico anelito di salire sullo scranno più alto: quello del comando.
Questo desiderio di potere che si è tradotto nella voglia di conquistare Roma per entrare nella mitica “stanza dei bottoni”, come sintetizzò Pietro Nenni.
Perché questa terra “di mezzo”, distante e non solo geograficamente dal nord padano come dal sud simboleggiato dalla capitale, è stata coinvolta in quasi tutti i movimenti o sedizioni che puntavano su Roma? Un tentativo di risposta al fascinoso interrogativo è arrivato dal tradizionale Processo del 10 agosto a San Mauro Pascoli (giorno dell’uccisione del padre del poeta Giovanni). L’evento, promosso dall’associazione pubblico-privata Sammauroindustria, in diciassette edizioni ha portato alla sbarra personaggi che hanno fatto la storia della Romagna e dell’Italia (Mussolini e Mazzini, Secondo Casadei e Garibaldi) ma anche la cucina romagnola, la rivoluzione russa e perfino il Sessantotto.
Perché processare la fatale attrazione della Romagna verso Roma espressa nelle Marce?
Delle due marce su Roma di età antica si deve dire, innanzitutto, che si tratta di due eventi profondamente diversi. “La marcia di Brenno verso la fine del 300 a.c. ha contorni leggendari, ammantata di un’aura di sogno e magia che la rende particolarmente suggestiva. – spiega lo storico Giovanni Brizzi – L’altra marcia, di Cesare su Roma, è più definita e ha risvolti più ampi, coinvolgendo un entroterra che tocca non solo l’intera Cisalpina, ma la Gallia comata, che ospita le legioni di Cesare. E soprattutto è un evento di portata mondiale per gli echi che ancora oggi persistono”.
E le marce di epoca risorgimentale? “Animate da romagnoli o che passano dalla Romagna, le marce – la tesi è di Roberto Balzani, storico dell’Università di Bologna – sembrano esprimere da un lato l’inevitabilità di ‘fare i conti’ con il baricentro geo-politico della penisola (con Roma è impossibile non confrontarsi), dall’altro un’estraneità/ostilità tipicamente settentrionali, il cui sostrato profondo pare percorso da una radice nervosa, violenta, oppositiva, distruttrice. La marcia su Roma insomma come metafora di una tensione latente nell’articolazione originale del Paese, che la fase risorgimentale e unitaria ha finito, inevitabilmente, per accentuare”. Stefano Folli, editorialista di Repubblica ed ex direttore del Corriere della Sera, è di tutt’altro avviso. Il fondo ribellistico dell’animo romagnolo non può essere “disgiunto da antiche condizioni di povertà ed emarginazione. In tempi recenti questo ribellismo ha assunto caratteri talvolta autonomisti, ostili allo Stato centrale ma in altre occasioni patriottici e quindi favorevoli a una forte identità nazionale”. I romagnoli impazienti e pronti ad accorrere ovunque ci fosse da agire, nel secondo dopoguerra perdono la spinta eversiva, e la Romagna si rivela un forte sostegno delle istituzioni.
Il verdetto del Processo (che accompagna la scientificità dell’argomentazione con la spettacolarità dell’evento), emesso dal pubblico presente munito di paletta, è stato schiacciante: 188 voti per la condanna, 414 per l’assoluzione (nella foto).
Sede del potere temporale del Papa o del governo italiano, Roma “appare a chi la vuole conquistare, – è un ulteriore inquadramento offerto dallo storico dell’età contemporanea Fulvio Cammarano – oltre che un obiettivo politico, un mito su cui costruire un’alternativa”. Ma oggi – fa notare Folli – “l’antistatalismo contro Roma ha preso altre strade”. Il rischio, ieri come oggi, è che quello di immaginare un’Italia diversa e di essere noi i purificatori. Pensando che con la forza si possa conquistare il potere e redimere il popolo.
Paolo Guiducci