Al festival pesarese il capolavoro di Rossini in un bellissimo allestimento di Pier Luigi Pizzi valorizzato da ottimi interpreti
PESARO, 16 agosto 2018 – Il barbiere di Siviglia non è solo il capolavoro di Rossini, ma un vertice assoluto del teatro in musica. Nonostante sia un’opera tra le più gettonate, è raro assistere a esecuzioni ben riuscite e, dallo stesso festival di Pesaro – tempio indiscusso del culto rossiniano – non sempre sono arrivati Barbieri memorabili. Questa volta, però, le aspettative sono state pienamente rispettate e l’allestimento di Pier Luigi Pizzi – che, incredibile a dirsi, dopo tanti anni di presenze al ROF, solo ora debutta in quest’opera – funziona alla perfezione in palcoscenico. E altrettanto si può dire per l’esecuzione musicale.
Saggiamente il regista sceglie di non attualizzare la vicenda, che è densa di riferimenti a un’epoca storica ben precisa (il libretto di Sterbini, del 1816, è liberamente ispirato alla famosa commedia ‘illuministica’ di Beaumarchais): giocando sul bianco e nero, con le uniche varianti cromatiche degli abiti di Rosina e del grembiule di Berta, sfrutta l’ampio palcoscenico dell’Adriatic Arena per concepire – semmai – una Siviglia mentale, elegante e luminosa (a curare le luci è Massimo Gasparon). In questo spazio gli interpreti, che indossano abiti di foggia ottocentesca senza tempo, si muovono a loro agio e la vicenda procede con chiarezza esemplare: anche chi non ha grande familiarità con Il barbiere – e tra il pubblico gli stranieri sono moltissimi – può seguirla con estrema facilità, apprezzando ogni dettaglio.
La regia si preoccupa di definire con cura i caratteri dei personaggi: tutti gli interpreti appaiono ben calati nei loro ruoli. Dal podio, il canadese Yves Abel – ormai un veterano del ROF – ha profuso altrettante attenzioni verso i cantanti, curandone la dizione e realizzando al meglio i recitativi. Ha diretto l’Orchestra Sinfonica della RAI con precisione e rigore ritmico, ma forse trascurando un po’ la varietà dinamica, in una lettura libera da certi discutibili (anche quando illustri) retaggi del passato.
Il baritono Davide Luciano è un Figaro che rappresenta davvero l’homo novus: vincente su tutti i fronti, non solo perché è giovane e atletico in scena, ma s’impone per la notevole sicurezza vocale – ai limiti della sfrontatezza – sostenuta da mezzi consistenti e da un’ottima tecnica di canto. Accanto a lui il mezzosoprano giapponese Aya Wakizono è una Rosina di notevole musicalità, precisa nelle colorature che, con il suo fisico adolescenziale, in scena appare simile a tante ragazze di oggi. Giovane e bello anche il tenore Maxim Mironov: un Conte di Almaviva dal canto sicuro e dall’accento spavaldo, con un certo retrogusto di arroganza che gli deriva dal suo status da Grande di Spagna. E pure commediante camaleontico, quando si presenta sotto le mentite spoglie del maestro di musica Don Alonso, rimpicciolendo la sua statura come faceva l’indimenticabile Bice Valori in Gianburrasca.
Pietro Spagnoli disegna un Don Bartolo blasé e aristocratico (canta per l’intera opera con la erre moscia), come si conviene a un medico di un certo lignaggio. E se nell’aria A un dottor della mia sorte ha modo di sfoggiare tutta la sua padronanza vocale, è addirittura irresistibile quando intona la cosiddetta arietta di Caffariello in falsetto, trasformandola in spiritosissima parodia della vocalità barocca. Dietro questa facciata – il ritratto plasmato da Spagnoli è tutt’altro che bonario – si cela probabilmente un cinico, interessato solo a metter le mani sul patrimonio della pupilla. Ma il suo sodale Don Basilio, così come lo incarna Michele Pertusi, è ancor peggio: un personaggio cattivo, quasi sinistro, senza macchiettismi assolutori, privo di qualsiasi etica e che vive di espedienti per sbarcare il lunario. Pure le figure minori sono cesellate con cura: William Corrò mette molto ben a fuoco il personaggio dell’ufficiale e, ancor più, quello di Fiorello; mentre Elena Zilio, che è tornata al ROF dopo una quarantina d’anni (interpretò Pippo nella Gazza ladra del 1981) caratterizza una Berta materna e piena di empatia femminile verso la povera Rosina segregata dal tutore.
Successo clamoroso per tutti: anche il numerosissimo pubblico aveva la consapevolezza che simili occasioni sono rare e, soprattutto, preziose.
Giulia Vannoni