È da parecchio tempo che penso di scrivere questa mia riflessione ma i toni così esacerbati mi hanno fermato: la paura è quella di non aprire un dibattito che, partendo dalla nostra umanità, sappia proporre confronto e condivisione sulle nostre paure, preoccupazioni, ma che venga utilizzato per aumentare il clima di rancore che serpeggia nelle nostre comunità.
Di fronte ai numeri delle vittime lungo la rotta del Mediterraneo centrale, oltre 1000 nel 2018, possiamo tacere? Di fronte alla mamma che ha preferito morire affogata abbracciata al proprio figlio di 2 anni piuttosto che abbandonarlo e cercare di salvarsi, possiamo restare in silenzio? Possiamo fare finta che non sia successo nulla? È giusto girare la testa per non vedere?
Temo che saremo chiamati a rendere conto di questo nuovo olocausto, della nostra indifferenza e della nostra ipocrisia.
Il Consiglio permanente della Cei ha da poco inviato una Lettera alle parrocchie, «per aiutare le comunità a passare dalla paura all’incontro, dall’incontro alla relazione, dalla relazione all’interazione e all’integrazione». «I Vescovi italiani – negli Orientamenti pastorali per il decennio 2010 / 2020 – hanno ricordato che il fenomeno delle migrazioni è “senza dubbio una delle più grandi sfide educative”. Siamo consapevoli che nemmeno noi cristiani, di fronte al fenomeno globale delle migrazioni, con le sue opportunità e i suoi problemi, possiamo limitarci a risposte prefabbricate, ma dobbiamo affrontarlo con realismo e intelligenza, con creatività e audacia, e al tempo stesso, con prudenza, evitando soluzioni semplicistiche. Riconosciamo che esistono dei limiti nell’accoglienza. Al di là di quelli dettati dall’egoismo, dall’individualismo di chi si rinchiude nel proprio benessere, da un’ economia e da una politica che non riconoscono la persona nella sua integralità, esistono limiti imposti da una reale possibilità di offrire condizioni abitative, di lavoro e di vita dignitose. Siamo, inoltre, consapevoli che il periodo di crisi che sta ancora attraversando il nostro Paese rende più difficile l’accoglienza, perché l’altro è visto come un concorrente e non come un’opportunità per un rinnovamento sociale e spirituale e una risorsa per la stessa crescita del Paese. Vogliamo ricordare, inoltre, che il primo diritto è quello di non dover essere costretti a lasciare la propria terra. Per questo appare ancora più urgente impegnarsi anche nei Paesi di origine dei migranti, per porre rimedio ad alcuni dei fattori che ne motivano la partenza e per ridurre la forte disuguaglianza economica e sociale oggi esistente».
Ma per far questo, ci ricorda cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson – uno degli autori dell’enciclica Laudato sì e, da quasi due anni, prefetto del nuovo Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale – «All’Africa servono i giovani per svilupparsi. L’emigrazione oggi è un getto d’acqua inarrestabile, per fermarlo va chiuso il rubinetto. Abbiamo governi corrotti che rubano i fondi destinati allo sviluppo. Servono regole per la globalizzazione selvaggia che così avvantaggia i prodotti occidentali e asiatici penalizzando quelli africani. La globalizzazione va bene, ma non così. Ci sono altre tre questioni. Primo, fermare il traffico di armi. I conflitti in Africa sono spesso combattuti con armi europee o russe perché non ci sono fabbriche di armi nel continente. Se i governi europei ad esempio, che temono l’immigrazione, rinunciassero al business delle armi avrebbero meno migranti. Poi va combattuto il traffico di esseri umani e quello connesso degli organi. Infine dobbiamo fermare i mutamenti climatici cambiando stili di vita. Vogliamo uno sviluppo umano integrale, una ecologia che abbia l’uomo al centro».
Papa Francesco, nel ritorno dal recente viaggio Ginevra, intervistato sull’incidente della nave Aquarius, ha risposto:
«Sui rifugiati ho parlato molto e i criteri sono quelli che ho detto: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Poi ho detto che ogni Paese deve fare questo con la virtù propria del governo, cioè con la prudenza. Ogni Paese deve accogliere quanto può, quanti ne può integrare. L’Italia e la Grecia sono state generosissime ad accogliere. C’è il problema del traffico dei migranti. Ho visto le fotografie dei trafficanti in Libia. C’è un caso che conosco, le carceri dei trafficanti sono terribili, come nei lager della seconda guerra mondiale si vedevano mutilazioni e torture. Tutto questo è un disordine, il problema della fame in Africa si può risolvere. Tanti governi europei stanno pensando di investire in quei Paesi per dare investimento ed educazione. Nell’immaginario collettivo c’è un pensiero brutto: l’Africa va sfruttata. Sempre sono schiavi. Deve cambiare questo piano».
Mi sembrano ottime basi per iniziare un confronto impegnativo, scomodo, ma trasparente e sincero.
Si tratta come ha scritto la Cei nella già citata Lettera alle parrocchie di «Leggere le migrazioni come segno dei tempi, che richiede innanzitutto uno sguardo profondo, uno sguardo capace di andare oltre letture superficiali o di comodo, uno sguardo che vada più lontano e cerchi di individuare il perché del fenomeno. Prima ancora di aprire o chiudere gli occhi davanti allo straniero è necessario interrogarsi sulle cause che lo muovono, anche se – e forse proprio perché – oggi appare più difficile che mai riuscire a distinguere quanti fuggono da guerre e persecuzioni da quanti sono mossi dalla fame o dai cambiamenti climatici. Papa Francesco ci ricorda la necessità di “avere una sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi”. Si tratta di una responsabilità grave, giacché alcune realtà del presente, se non trovano buone soluzioni, possono innescare processi di disumanizzazione da cui poi è difficile tornare indietro». Si tratta di prendere coscienza dei meccanismi generati da un’economia che uccide e della iniquità che genera violenza: «Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità». Significa riscoprire la capacità di pensare in grande per agire “politicamente” in senso forte e responsabile, così da colpire efficacemente, ovunque si trovino, poteri e persone che prosperano sulla morte degli altri, cominciando dai trafficanti di armi fino a quelli di esseri umani.
Incontriamoci, dibattiamo, confrontiamoci con l’attenzione a cui ci invita il presidente della Cei, cardinale Gualtieri Bassetti che, in un’intervista a La Stampa, invita a non usare i migranti come tema di «distrazione di massa» rispetto ad altri problemi dell’Italia, dell’Europa e del mondo occidentale. «Oggi, attraverso una lettura semplificata, sembra che tutti i problemi delle società occidentali derivino dai migranti. Ma non è così. La crisi economica, morale e sociale ha radici profonde, che tocca le viscere della storia recente e passata».
Come Caritas siamo disponibili al confronto senza preconcetti e preclusioni purché sia pacifico, costruttivo, privo di strumentalizzazioni, e cerchi di mettere al centro la nostra umanità e il diritto, per ogni bambino, donna, uomo, a vivere in pace e con speranza.
Mario Galasso