Il dolore lancinante per la morte del proprio figlio. L’abbraccio sconfinato della comunità. La scoperta della fede e un viaggio che ti fa capire come i disegni del Signore siano davvero pieni di amore e di speranza.
È la storia di Giacomo Petruzzi e dei suoi genitori. Una storia non facile: piena di gioia, dolore e disperazione. Una storia che Vincenzo e Patrizia, però, vogliono raccontare per dare a tutti quei papà e quelle mamme che in questo momento vivono lo sconforto più totale, un messaggio di grande fiducia.
“Se solo si potessero conoscere i piani di Dio in questa vita terrena, mi chiedo quante cose ci potremmo perdere. – dice Patrizia – E il ricercare un motivo di certi accadimenti nella vita, drammatici, scomodi, faticosi non ci renderebbe certo questo cammino facile. Le cose accadono. Punto. Siamo solo una madre e un padre che hanno dovuto ascoltare la diagnosi di cancro a 15 anni del loro unico figlio”.
Una diagnosi arrivata dopo un altro problema che aveva costretto Giacomo a diversi ricoveri.
“Purtroppo alla nascita gli è stata riscontrata una malattia legata all’intestino che lo ha portato per nove volte in sala operatoria. Ma già in quel frangente ha dimostrato una forza, un coraggio e una mitezza straordinaria”.
Fortunatamente tutto si risolve e Giacomo inizia una vita normale fatta di scuola, amicizie e soprattutto libri e film.
“Era un divoratore di saghe. Praticamente le ha lette e viste tutte”.
Arriva il tempo delle superiori. La famiglia Petruzzi nel frattempo si era trasferita da Santarcangelo, dove Giacomo aveva preso tutti i sacramenti, a Savignano. La scelta cade su Agraria. Nel frattempo inizia anche a giocare a pallavolo nel San Mauro Volley. È proprio dopo un allenamento torna a casa e dice al babbo che ha male a una gamba.
“All’inizio abbiamo fatto della fisioterapia – ricorda Vincenzo – poi una radiografia, ma nulla, il dolore non passava finché dopo un’ecografia ci è stato detto che Giacomo aveva un tumore”.
Inizia un calvario di diciotto mesi tra chemioterapia al “Rizzoli” di Bologna e radioterapia all’ospedale di Rimini. “Nonostante il dolore e la stanchezza che queste terapie gli portavano, Giacomo tutte le volte che poteva continuava a frequentare la scuola per non rimanere indietro con gli studi. Un giorno, mentre eravamo in ospedale, a mia moglie è venuto un momento di sconforto e si è lasciata andare a un commento: «Perché a te, non poteva venire a quel bulletto?». Giacomo l’ha guardata e le ha detto: «Mamma, lui non lo avrebbe sopportato» dimostrando il suo grande altruismo”.
Purtroppo la malattia non si ferma, le sue condizioni peggiorano finché il 13 marzo del 2016 torna alla casa del Padre.
“Ma Giacomo non ha perso la sua battaglia per la vita – interviene mamma Patrizia – Giacomo è più vivo che mai e si fa sentire e gestisce le nostre vite con un soffio di quello spirito che nessuno perde neanche di fronte alla morte e noi ne siamo testimoni. Abbiamo ascoltato il suo soffio, non è facile, non sempre c’è. Lo sa il cielo quando mandarlo e allora si scatena un forte vento di emozioni e situazioni che sconvolgono le strade che si stavano percorrendo. Ricordo che dopo la sua scomparsa, un giorno chiedo aiuto, aiuto a Giacomo. Come avrei potuto vivere senza lui? La risposta arriva immediatamente. La sera in parrocchia, in presenza del dottor Massimo Migani, missionario in Zimbabwe, si parlava di un progetto chiamato Operazione Cuore. Si tratta di ospitare una mamma e il suo bambino gravemente cardiopatico, in attesa di essere operato a Bologna. Noi diciamo subito di sì. Ci arriva Kunasche, gravemente malnutrita. Su di lei c’è la protezione di Giacomo e il nostro amore smisurato che ci ha fatto tornare a lottare, sperare ed essere ancora genitori. Siamo tornati alla vita. E anche la nostra Kuny torna in Zimbabwe e cresce”.
In loro rifiorisce anche la fede. Tanto che Vincenzo e Patrizia partecipano ad alcuni incontri di missionariato a Viserba. In loro nasce il progetto di andare in Africa e così ad agosto dello scorso anno partono insieme a don Aldo Fonti e a don Concetto Reveruzzi.
“Siamo andati prima a Mutoko e poi ci siamo spostati a Mhondoro dove si trova un orfanotrofio gestito dalle Maestre Pie dove si trovano molti bambini sieropositivi. Appena entriamo a Patrizia cade l’occhio su un gruppetto di cinque casette, lo chiamano Villaggio Marilù. C’è anche una foto. Vedo che i suoi occhi si sgranano e che inizia a piangere. All’inizio credevo che l’emozione di essere in quel luogo l’avesse travolta. Poi, però, ho capito tutto e anche io ho ceduto e continuavo a dire «non è possibile, non è possibile». Marilù era una ragazza che abbiamo conosciuto al Rizzoli quando Giacomo era ricoverato. Avevamo conosciuto i genitori, la loro storia, non dico che siamo diventati amici, ma quasi. Purtroppo lei è venuta a mancare sei mesi prima di nostro figlio e quando l’abbiamo rivista lì, siamo rimasti senza parole. La mamma a Trani era all’interno dell’Azione Cattolica e ha iniziato una raccolta fondi e ci parlava di questa idea che aveva, ma non pensavamo mai di imbatterci nel suo splendido progetto. E così è nato in noi il progetto di fare qualcosa che potesse unire la passione di Giacomo con qualcosa di concreto. Le suore ci hanno fatto vedere un terreno abbastanza grande dove volevano realizzare un frutteto per dare l’opportunità ai bimbi di mangiare una frutta al giorno, ma anche di mettere su una piccola produzione dalla quale raccogliere qualche soldo con la vendita”.
E così quando tornano in Italia Vincenzo e Patrizia iniziano una raccolta fondi.
“Grazie alla scuola di Agraria e alla parrocchia di Santarcangelo – racconta Patrizia – più ai parenti e agli amici il frutteto è stato assicurato e cresce in modo speciale: grazie a quel soffio celestiale che Giacomo manda. La morte non ha vinto. Giacomo è qui che soffia e riesce ad indirizzare strade che in un solo modo si possono chiamare: amore, amore infinito. Quell’amore che pensavamo fosse perduto, Giacomo lo ha ritrovato in un’altra forma, più grande che mai affianco al Signore. È come quando un fiume arriva al mare: lungo il suo percorso ci sono tanti ruscelli che contribuiscono ad arricchire l’acqua di quel fiume che poi sfocerà nel mare. Giacomo è quel torrente che è riuscito a convogliare, a mobilitare tutti quei rivoli che si sono riversati nel suo nome, nel suo ricordo, ma soprattutto nel suo bene”.
Francesco Barone