Prima c’è la campagna e poi c’è la città. Passa il tempo ma due cose non cambiano: lo stato di povertà dell’ampia famiglia protagonista del terzo film di Alice Rohrwacher, premiato a Cannes per la migliore sceneggiatura, e la figura del personaggio centrale di Lazzaro (Adriano Tardiolo). Tutti sono cresciuti e invecchiati, lui no: è tornato in vita dopo una brutta caduta ed è ignaro degli avvenimenti che hanno colpito la sua comunità, popoloso nucleo ingannato a vivere in antiquata modalità di mezzadria da una marchesa senza scrupoli, tenuti a distanza dal mondo esterno e “prigionieri” ignari in una valle dove coltivano tabacco per il business della ricca signora. Lazzaro ritrova i suoi in città, al limitare della ferrovia, ma il trasferimento non ha cambiato le loro condizioni e il loro status sociale e sono costretti a sbarcare il lunario con furti e truffe.
Cinema sociologico e antropologico, che odora di Ermanno Olmi (per la prima parte viene in mente il mondo rurale de L’albero degli zoccoli) e Zavattini (il “realismo magico” di Miracolo a Milano), Sergio Citti e Pasolini, con le coordinate preferite della regista che non teme il confronto con il sacro (ricordate il suo esordio Corpo Celeste?) qui delineato tra la devozione popolare e il contrasto di fantasiosi rituali contadini, per porre l’accento su uno stato di indigenza, povertà ed emarginazione che emerge dal timbro quasi favolistico. Santi, lupi, vento e foglie di tabacco, in una storia che parte da un estremo mondo rurale per giungere alla dimensione urbana dotata di spazi poco accoglienti per i “poveri più poveri”.
Accanto agli occhioni sgranati e ingenui del giovane Tardiolo, appaiono la severa marchesa di Nicoletta Braschi, l’inseparabile sorella dell’autrice, Alba e altri, coinvolti in un film curioso e intrigante.
Il Cinecittà di Paolo Pagliarani