Questo è il mio corpo è il titolo del Messaggio del Vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi, alla Città e alla Diocesi al termine della processione del Corpus Domini, pronunciato il 31 maggio presso l’Arco d’Augusto, a Rimini.
1. Questo è il mio corpo!
Cosa intendeva dire Gesù nell’ultima cena, quando ha reso grazie sul pane spezzato e ha pronunciato parole così vertiginose che non potevano non rimanere tatuate a caratteri indelebili sul cuore dei Dodici: “Prendete, mangiate: <+cors>questo è il mio corpo”? Nel linguaggio biblico il corpo non è una componente dell’individuo umano, l’involucro dell’anima spirituale, un ‘pezzo’ di quella sorta di ‘macchina’ semovente qual è l’<+cors>homo sapiens sapiens<+testo>. Nel nostro linguaggio ‘corpo’ sta a dire un insieme di carne ed ossa, strutturato di organi e apparati, e rivestito di pelle umana.
In bocca a Gesù, invece, come nell’Antico Testamento, ‘corpo’ non indica una parte, ma tutto l’individuo in quanto vive la sua vita abitando un ‘fisico’, immerso in una condizione carnale, e perciò mortale. Dicendo: Questo è il mio corpo, Gesù voleva lasciarci in dono tutta la sua vita, dal primo istante dell’incarnazione all’ultimo respiro sulla croce. Con tutto ciò che aveva riempito i suoi 33 anni di esistenza: un arco vitale fatto di incanti e sudori, di abbracci e tradimenti, di gemiti e sorrisi. Una tela tramata di silenzi e parole, ordita di umili gesti e di eventi stupefacenti. Fino alla morte, e morte di croce. Tutto un movimento d’amore. Nella notte in cui veniva tradito, del suo corpo che gli veniva ingiustamente sottratto, Gesù ne ha fatto un corpo liberamente offerto. Di una vita che gli veniva violentemente strappata, Gesù ne ha fatto una vita gratuitamente donata.
2. Questo è il mio corpo!
È lo slogan della campagna di sensibilizzazione lanciata a Montecitorio nel luglio 2016 dalla APGXXIII, per riportare all’attenzione di tutti la centralità della persona, della sua dignità e della dignità del corpo della donna ormai mercificato in più forme – anche on line – attraverso immagini che sono alla portata di un click. Ricordiamo quanto ripeteva don Oreste, da autentico profeta e portavoce di Dio: “Le vittime della tratta vogliono essere liberate, non consolate”. E dal 1996 ad oggi la comunità da lui fondata ne ha liberate ben 8mila.
Ho chiesto di poter fare e ho fatto due volte il giro di notte con una delle unità di strada della APGXXIII, e mi ha colpito sentire che la domanda rivolta alle tante ragazzine rese schiave non era il cinico, ripugnante “quanto costi?”, ma piuttosto: “quanto soffri?”. Il 27 marzo scorso Papa Francesco, alla riunione pre-sinodale per i giovani, a Blessing, una ragazza nigeriana liberata dalla strada – la quale gli aveva fatto notare che molti clienti sono cattolici – ha risposto testualmente: “Chi fa questo è un criminale. Non è fare l’amore, questo. È torturare una donna. E io voglio approfittare per chiedere perdono a voi e alla società, per tutti i cattolici che commettono un atto tanto criminale”. Purtroppo è vero, e già lo denunciava don Oreste con parole di fuoco: tra i troppi clienti ci sono molti cristiani cattolici che vedono una donna non come una persona, ma come un oggetto che può essere venduto, comprato, usato.
3. Questo è il mio corpo!
Sorelle, Fratelli, Amici, qui e ora, davanti a Colui che non si stanca di ripeterci le parole della sua integrale, irreversibile autoconsegna, mentre del suo corpo si stava facendo immondo mercato, ho il grave dovere di coscienza di farvi ascoltare il grido straziante di una ragazzina vergine di dodici anni destinata ai bordelli della Germania, di nome Chidimma, che vuol dire “Dio è buono”. È stata più volte violentata, derubata, malmenata e finalmente liberata da una unità di strada della APGXXIII. Ecco le sue testuali parole: “Come si fa a chiamare lavoro tutto questo schifo? La prostituzione non è lavoro. E’ schiavitù. Le istituzioni dovrebbero punire i clienti, perché se non ci fossero loro, noi non saremmo in vendita”.
È vero, tremendamente vero. La prostituzione non è né lavoro né tantomeno amore. È lurido commercio. È squallido, raccapricciante sfruttamento. È ignobile uso e sadico abuso del corpo di tante povere donne. Per questo nel discorso alla Città tenuto in occasione dell’ultima festa del nostro patrono, ho sostenuto che queste nostre sorelle non meritano di essere chiamate prostitute, ma senza ombra alcuna di ipocrisia dovrebbero essere onestamente riconosciute come prostituite. Non si tratta di una leziosa questione grammaticale. Perché queste donne, spesso ragazzine adolescenti, sono state ingannate, martoriate, fatte preda della malavita e della mafia, sottoposte ad aborti forzati, ridotte a merce di consumo. E in quello stesso discorso mi auguravo che venissero rafforzate le misure per contrastare la schiavitù della prostituzione, tramite la sanzione dei clienti del sesso. Colpire la domanda per arginare l’offerta. Ora, in questa sede esprimo sincero apprezzamento nei confronti delle Istituzioni locali e delle Forze dell’ordine per quanto hanno operato in questa direzione. D’altra parte occorre riconoscere che le leggi, pur necessarie, sono insufficienti.
4. Questo è il mio corpo!
Abbiamo bisogno tutti di attingere a una riserva di limpido stupore, per non sporcare con le nostre torbide brame la stupenda armonia del corpo di una donna, nell’incanto dei suoi occhi ridenti e fuggitivi. Dobbiamo tornare alla scuola di Maria, donna bellissima, ammirata e amata anche dai nostri fratelli musulmani, perché ci doni uno sguardo trasparente e un cuore dolce e ardente come il suo. E per lasciarci da lei riconciliare con la bellezza che salverà il mondo: quella che fa rima con purezza, fortezza, tenerezza.
Solo con uno sguardo di tenero stupore potremo, poi, promuovere e attivare un lavoro culturale ed educativo per riuscire a ricreare una nuova cultura del rispetto, nella nostra società malata, dove lo stillicidio ripugnante del femminicidio deriva proprio dall’idea disumana che del corpo della donna si può fare ciò che si vuole, perché tanto sarebbe soltanto un oggetto di proprietà privata.
Faccio perciò appello a genitori e insegnanti, a preti e religiose, a catechiste ed educatori, a operatori sanitari, alle forze dell’ordine, ai giudici, ai giornalisti, ai politici, agli amministratori di condominio, agli albergatori… Facciamo, tutti, tutto quello che possiamo, per non diventare complici di una mafia che vuole gestire le nostre strade di notte, per arricchirsi dell’ingordo mercimonio del corpo delle donne. La fitta rete costruita da trafficanti, sfruttatori e clienti può essere spezzata. Ma è urgente uscire dall’indifferenza e dal silenzio per cambiare la storia e il volto delle nostre città. Oggi stesso!
+ Francesco Lambiasi