Al Teatro dell’Opera di Roma grande successo per il nuovo allestimento di Billy Budd firmato dalla regista Deborah Warren
ROMA, 13 maggio 2018 – L’interno di una nave da guerra britannica, dove però la presenza del mare non si avverte, con la ciurma che vive sottocoperta, mentre l’equipaggio di alto rango si muove al piano superiore. Non è una scelta speculare solo alla gerarchia dei personaggi, ma un modo per sottolineare come Billy Budd – riflessione sul bene e il male che convivono dentro ciascuno – si articoli su più livelli: come già succede nel racconto di Melville e, ancor più, nell’opera di Britten (1951) su libretto di Forster, che grazie alla musica vi aggiunge ulteriori elementi di complessità.
Nel nuovo allestimento dell’Opera di Roma firmato da Deborah Warner, la scenografia ultraessenziale di Michael Levine e i costumi senza tempo di Chloe Obolensky – oltre alle bellissime luci di Jean Kalman – esaltano un dramma che prende forma in un tempo sospeso: nel Billy Budd non c’è quasi azione e, quando s’intravede il nemico, l’unico colpo sparato non va neppure a segno. Un po’ alla volta ci si immerge in quest’atmosfera, prendendo atto della crudeltà, anche gratuita, che regola i rapporti fra i marinai e – più in generale, forse – fra gli uomini. La tragedia si consuma essenzialmente nelle coscienze del terzetto protagonista: il tappeto nell’appartamento del capitano Vere, continuamente avvolto e disteso, rappresenta un’ideale metafora di ciò che i cuori celano e di quello che invece si è autorizzati a mostrare.
Accuratissimo il lavoro fatto dalla regista inglese (quaranta giorni di prove, come ormai non si usa più) sia nel coordinare i movimenti delle masse – il coro canta e si muove con precisione metronomica – sia nello scavo psicologico dei personaggi: toccante l’immagine di Billy che sta per essere impiccato e appoggia affettuosamente una mano sulla testa del capitano, quasi nell’intento di sollevarlo dal peso dei rimorsi di non essere riuscito a salvarlo. Ed è molto suggestivo il finale con il giovane marinaio che non viene appeso al pennone ma sembra assurgere in cielo, spinto dalla musica: un simbolismo inequivocabile, che assegna alla morte del protagonista le caratteristiche di un vero e proprio sacrificio, salvifico e consolatorio.
Sebbene baritono fin troppo tenorile, Phillip Addis è riuscito a incarnare in modo ideale la giovanile spontaneità e l’entusiasmo di Billy (“buono, bello nell’anima e nel corpo” come viene più volte definito), riuscendo a trasmettere anche la dolorosa consapevolezza con cui affronta la morte. Il bravissimo tenore Toby Spence ha reso con perfetta sicurezza vocale la complessità di Vere, combattuto fra i doveri legati al suo rango di capitano e il desiderio di salvare Billy. Il basso John Relyea è stato in grado d’imprimere una cinica crudeltà al maestro d’armi Claggart, anima nera della vicenda, disegnando il profilo di un uomo spaventato dagli aspetti più torbidi del proprio animo, come emerge dalla sua aria che sembra ricalcata sul Credo di Jago dell’Otello. Molto bravi anche i sedici personaggi di contorno, tra cui merita una citazione almeno il basso Stephen Richardson, nei panni di Dansker: con atteggiamento paterno mette in guardia Billy dalle provocazioni, svelando una tenerezza inaspettata – e dunque ancor più straziante – nei rudi rapporti di questo universo maschile. Tutti perfettamente amalgamati dalla bacchetta di James Conlon, direttore dalla lunga familiarità con Britten, che ha guidato gli strumentisti con precisione e minuziosa cura dei dettagli, valorizzando un’orchestrazione che punta molto sulla varietà timbrica. Eccellente la prova del coro (strepitoso anche sul piano attoriale, fra l’altro), preparato come di consueto da Roberto Gabbiani.
Gremita la sala del Costanzi da un pubblico entusiasta: merito della musica di Britten, certo, ma pure di uno spettacolo dove sono riusciti a fondersi l’ottimo aspetto esecutivo e quello visuale. Una volta tanto in una felicissima simbiosi.
Giulia Vannoni