Conosco un posto a Santarcangelo che ha il potere di trasportarti indietro nel tempo, molto indietro. È un luogo che ho visitato tante volte nella mia vita, ma ogni volta che lo vedo mi affascina come se ci entrassi per la prima volta. Sto parlando dell’Antica Stamperia Marchi, situata nel cuore della città, lungo Via Battisti. Già a vederlo da fuori, il posto è incantato: una casetta ad angolo con mattoni a vista, con una bella pianta di giuggiolo attaccata all’antico muro e, sul fronte – in alto sopra all’ingresso – un delizioso balconcino di ferro battuto, con dei fiori gentili che impreziosiscono la facciata. All’interno del negozio è custodito uno dei tesori di Santarcangelo e del mondo intero: il Mangano seicentesco. Per coloro che non l’hanno mai sentito nominare, eccone la definizione del Vocabolario Treccani: “Un’antica macchina da guerra… per lanciare i proiettili a distanza”, o anche “Una macchina usata per la manganatura dei tessuti…”. Ne parlo con Alfonso Marchi (nella foto), che – dopo averla gestita per tutta una vita prima col padre e il nonno e poi con la moglie Flora – da poco ha lasciato l’attività ai figli Lara e Gabriele.
Signor Marchi, mi racconta cos’è esattamente il mangano?
“La parola Mangano significa macchina che produce forza. Il nostro Mangano è una pressa che ha compiuto 385 anni il 17 marzo scorso, attraverso la quale si effettua la follatura dei tessuti, cioè si rendono compatti e stirati, pronti per la fase successiva che è quella della stampa”.
Ho capito bene? 385 anni?
“Sì, questo attrezzo è l’ultimo esemplare al mondo per peso e dimensione: una grande ruota di legno e pietre di 5 metri di diametro e pesante 55 quintali è collegata, tramite delle cime, ad un masso dello stesso peso. Il tutto è talmente in equilibrio da far sì che il solo peso di un uomo che ci cammina all’interno faccia muovere il grande blocco di pietra che – scorrendo in avanti e indietro – stira le tele arrotolate intorno a degli appositi rulli cilindrici, chiamati subbi”.
Dal 1633, cioè da quando il Mangano è in attività, si sono succedute nella bottega diverse generazioni di artigiani. Le ricorda tutte?
“Il primo fu Fiore Melini, colui che realizzò questa straordinaria macchina. Seguirono poi la famiglia Denzi (da cui il nome del vicolo dove è situata la piccola porticina di legno del laboratorio) e la famiglia Pracucci, che la rilevò alla fine dell’800. Fu proprio il mio nonno materno Sante Pracucci, conosciuto da tutti come <+cors>é tintòur<+testo_band>, che mi lasciò il Mangano, quando ero ancora molto giovane”.
Alfonso, è davvero emozionante ascoltare i suoi racconti. Si percepisce fortissimo il legame con questa macchina. Lei adora questo posto, vero?
“Sono stato innamorato del mangano da sempre, fin da piccolissimo. Durante la guerra ha rischiato di essere distrutto, perché la casa era stata occupata. Come la gran parte della popolazione, anche noi abbiamo lasciato la nostra abitazione e così molti stampi sono stati rubati e molti altri sono stati bruciati dai tedeschi che non avevano legna con cui scaldarsi. Dopo la guerra, il rischio di dover chiudere l’attività è stato reale; abbiamo temuto di perderlo. Mio nonno si è trovato in grave difficoltà, ha passato momenti davvero difficili”.
Nel dopoguerra, lei ha intuito di avere un tesoro inestimabile che – se solo si fosse salvato – avrebbe rappresentato la memoria del tempo. Così, avvalendosi di alcuni disegni miracolosamente salvati, ha recuperato – rifacendoli – alcuni stampi antichissimi che erano andati perduti e pian piano, con grande determinazione, ha riportato la “bottega dé tintòur” allo splendore che ancora ai giorni nostri possiamo ammirare. Come ha capito di aver centrato il bersaglio?
“Ne ho avuto la conferma quando, studiando sull’Enciclopedia di Denis Diderot, ho trovato una stampa che riproduceva il mangano a ruota, con tanto di progetto di costruzione. È stato incredibile. Da lì, ho cominciato a ragionare su come mantenere viva la tradizione e quello che per me è davvero importante è l’essere consapevole che – ancora oggi – il ciclo di lavorazione è rimasto lo stesso, inalterato nel tempo. Così siamo certi che il passato e le sue tradizioni continueranno a vivere nel presente e nel futuro. Oggi, anche se non lavoro più, ci tengo a mantenere la memoria dei ricordi che hanno fatto la storia, a raccontare quello che è sempre stato raccontato, senza che nulla vada disperso. Gabriele e Lara hanno ereditato l’attività nel migliore dei modi e – ovviamente – ne sono molto fiero. Il primo ha preso in mano il laboratorio, mentre Lara si occupa soprattutto del negozio e del marketing”.
Articoli sul Mangano di Santarcangelo e sulle famose tele stampate rigorosamente a mano sono spesso sulla stampa locale, nazionale ma anche internazionale. Sono state scritte, sull’argomento, anche interessanti tesi di laurea. Ma tra i prestigiosi riconoscimenti, quale le è più caro?
“Quello che mi dà più soddisfazione è il titolo di «Impresa storica» riconosciuto alla nostra attività dalla Camera di Commercio nel 2012. Siamo stati inseriti nel Registro delle imprese storiche e questo per me è il coronamento di un sogno. Mi auguro che le autorità attuali si accorgano presto di questo gioiello e che prendano i giusti provvedimenti affinché venga riconosciuto e custodito come merita”.
È un incanto ascoltarlo quando, appassionato, racconta che macchinari simili sono stati utilizzati in tanti settori e in tempi antichissimi: i romani ne conobbero l’utilità e l’applicarono nel campo della meccanica; consultando le tavole di progettazione di Leonardo da Vinci si può inoltre evincere come – nel Medioevo – il mangano sia stato sfruttato soprattutto come marchingegno da guerra. Insomma, non si finirebbe mai di seguire i racconti guardando la bottega: oltre allo strumento di inestimabile valore, gli occhi si possono riempire di tanto altro ancora. Alfonso, oltre che ceramista e bravo artigiano lei è anche un collezionista, vero?
“Sì, amo definirmi soprattutto un collezionista di tradizioni. Infatti, all’interno del mio laboratorio si possono trovare oltre a libri, legni e stampi secolari, preziosi reperti che tramandano le attività e le abitudini di un tempo, mortai che risalgono ad epoche ormai dimenticate utilizzati oggi per amalgamare i colori che servono a stampare sulla tela (ricette antiche a base di materiali naturali e tanto olio di gomito), vecchi calendari di fiere e mercati e altro ancora”.
Alfonso, si narra che ci sia da qualche parte anche una pelle di leone. Come è finita nella sua bottega la pelle di un animale feroce?
“Fu un evento degli anni ’50, un giovane leone fuggì dal tendone di un circo e cominciò a girovagare per il paese, finché non venne ucciso da un carabiniere. I circensi vollero tenere la testa, <+cors>Fafin<+testo_band> (un tipo del posto) lo macellò e ne estrasse il filetto che poi fu cucinato da <+cors>Brudèt <+testo_band>(altro personaggio santarcangiolese); la pelle fu fatta asciugare e – quando ormai era al limite della putrefazione – arrivò a me. E io, da buon collezionista, la tenni”.
Tra pochissimi giorni, sarà un giorno speciale per lei. Ce ne vuole parlare?
“L’11 maggio festeggerò 80 anni. La consapevolezza di aver salvato il mestiere nel quale i miei figli ancora lavorano è per me il regalo più bello, ma c’è dell’altro: serbata nell’albero portante del mangano, c’è una capsula del tempo. La aprirò proprio nel giorno del mio compleanno e chissà … ?”.
Il mio augurio è che, venerdì 11, Alfonso e la sua famiglia ci trovino all’interno un tesoro di testimonianze. In tal caso, capiremmo che “Il tempo – come diceva Albert Einstein – è solo un’illusione”.
Roberta Tamburini