Armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro in un contesto di politica e di innovazione sociale. Un concetto facile a dirsi ma difficile da realizzarsi, soprattutto se questa armonizzazione interessa la popolazione femminile. Simona Mulazzani, direttrice di Icaro Tv, ne ha discusso con l’economista riminese Stefano Zamagni che sull’incontro dei tempi del lavoro con quelli delle relazioni sociali ha delle idee chiare e precise che, però, si scontrano con una ben diversa realtà.
Professor Zamagni, le donne e il mondo del lavoro. Parliamone…
“Partirei da alcuni fatti stilizzati. Il primo è che il tasso di partecipazione femminile nel mondo del lavoro, nella media italiana, è ancora scandalosamente basso. Anche se il dato della nostra Regione ci pone molto vicino ai paesi nordici, come la Svezia, le regioni del Mezzogiorno d’Italia abbassano la media. Il secondo fatto stilizzato è che c’è correlazione positiva tra la partecipazione femminile al lavoro e il grado di sviluppo, sia economico, sia sociale. Questo è qualcosa a cui non si era abituati: nei paesi dove le donne partecipano di più si gode di un più alto tasso di sviluppo economico, sociale e civile. Questo vuol dire che il lavoro femminile è un fattore di progresso.
Il terzo fatto stilizzato è che le donne amano sia mettere al mondo dei figli sia lavorare. Non è vero che le donne preferiscono stare a casa. Così come non è vero che le donne sono meno capaci e preparate a svolgere determinate mansioni”.
Allora, fatte queste premesse, perché il lavoro femminile viene in qualche modo ostacolato?
“C’è chi dice che sia un fatto di cultura. Una cultura che nei secoli è stata maschilista e questo ci ha portato a formulare ipotesi che non sono supportate dai fatti. Una seconda ragione è legata ai modelli di welfare, ma non è esaustiva perché non si può negare che in Italia, come in altri paesi europei, le politiche di welfare negli ultimi 15-20 anni hanno fatto passi da gigante (basti pensare ai congedi di maternità) per cui questo incide ma non più di tanto. Quello che secondo me incide di più, il vero fattore responsabile, è l’organizzazione del lavoro delle imprese ancora di stampo taylorista/fordista. Il taylorismo, con la sua catena di montaggio, è un modello di produzione maschilista, che non tollera la donna, che esclude il lavoro femminile se non riducendolo al «portare il caffè al capo». Questo modello, è ovvio, ha subito un’evoluzione, però ancora in Italia l’80% delle nostre imprese sono rimaste tayloriste e questo ha delle conseguenze pratiche sul piano economico. Possiamo, senza indugio, dire che il modello taylorista oggi è il massimo dell’inefficienza”.
Bisogna cambiare il modello economico, quindi?
“Oggi che siamo nel pieno della quarta rivoluzione industriale rimanere con questo modello vuol dire rimanere fuori dal mercato. Le donne saranno fondamentali nel mondo del lavoro del futuro perché nelle nuove tecnologie (le tecnologie convergenti) sono più capaci degli uomini. Ecco perché se vogliamo risolvere il problema dell’armonizzazione dobbiamo insistere sul piano della cultura e sul piano del welfare ma soprattutto dobbiamo accelerare la transizione: dal modello del taylorismo a quello posttaylorista che è un modello che ha bisogno della biodiversità, sia di uomini sia di donne, perché ognuno è portatore di carismi particolari”.
Ma qual è l’elemento particolare che le donne portano dentro l’impresa? Fattore di successo dell’impresa stessa?
“È il principio di equità. È stato dimostrato da rilevazioni scientifiche le donne sono più eque e meno corruttibili. Il senso dell’equità è un fattore di successo dell’impresa perché se i lavoratori la sentono presente lavorano meglio e questo si traduce in un aumento della produttività”.
Qualunque sia il modello, si registra dell’insoddisfazione. O no?
“A proposito di insoddisfazione, nell’ultimo decennio si è sviluppato un nuovo filone nelle scienze economiche che è noto con il nome di Economia della Felicità, dal quale emerge che: a bassi livelli di reddito procapite la felicità delle donne è più alta di quella degli uomini; oltre una certa soglia (di guadagno, ndr) la felicità delle donne è più bassa, e anche di molto, di quella degli uomini. Questo perché le donne, ad alti livelli, quando gli viene richiesto di dare di più al lavoro, a scapito delle relazioni sociali, sono più infelici”.
È noto che le donne, chiedono di lavorare meno perché devono coniugare altre cose…
“Ecco perché si deve prendere il toro per le corna e ripensare l’organizzazione del lavoro. Faccio l’esempio del dirigente d’azienda che deve passare 14 ore a lavoro. Gli uomini accettano questa cosa, le donne no, perché danno valore anche alle relazioni. In realtà non c’è alcuno bisogno che un dirigente stia 14 ore a lavoro: dobbiamo cambiare questo modello di lavoro! Più stai in azienda e più la produttività cala. Nella quarta rivoluzione industriale dove si mettono al centro conoscenza e innovazione non è la presenza in ufficio a contare, ma il contrario!”.
Parola d’ordine: riorganizzazione del lavoro
“Se veramente vogliamo arrivare all’armonizzazione dobbiamo aggredire questo modello di organizzazione. Oggi questo è possibile e… non solo è possibile: è conveniente. Chi cambia il modello ha maggior successo sul mercato”.
Pagina a cura di Angela De Rubeis