Don Pedro … è con questo nome che è conosciuto; ma non è straniero, né messicano o spagnolo. In realtà si chiama Davide Pedrosi, ma da sempre gli amici, accorciando il suo cognome, lo hanno chiamato Pedro. E così è conosciuto ancora oggi, anche in parrocchia.
Da quando è diventato prete, cioè dal 2007, è stato in parrocchia a Bellaria, poi a Savignano e adesso a Castelvecchio, anche se continua a fare vita comune coi parroci di S. Lucia e del Cesare, condividendo con loro anche il cammino pastorale di tutto Saviganno.
È originario di Riccione e precisamente della parrocchia di San Lorenzino, dove ha conosciuto molti preti ”in transito” e dove ha maturato le sue prime scelte di vita.
“Intorno ai 15 anni, quando si hanno ancora poche certezza per il futuro, io una certezza l’avevo: non farò mai il prete. Erano anni difficili anche per la mia fede: di andare a messa non se ne parlava neppure. Quello che mi teneva legato alla parrocchia era il gruppo di Pronto Soccorso e di servizio che un prete aveva creato quando eravamo ancora nelle medie”.
Ma qualcosa di cristiano era stato seminato in te, almeno da bambino.
“In famiglia avevo respirato sempre un clima cristiano: mia mamma e mia nonna mi avevano insegnato a pregare e mio padre mi aveva dato l’esempio di una vita onesta e generosa, aperta al sociale. Inoltre avevo iniziato fin da piccolissimo a frequentare la parrocchia, anche perché i miei genitori mi portavano con loro quando andavano a fare servizio nei campeggi della parrocchia”.
Raccontaci qualcosa in più del gruppo di Pronto Soccorso.
“Eravamo in terza media quando abbiamo costituito questo gruppo con don Giovanni Tonelli. Il fulcro era la preghiera ed il servizio ai malati e alla Casa Famiglia. Un impegno settimanale che ci faceva sentire protagonisti e che ci ha portato a smuovere tutta la parrocchia. Credo sia stato questo servizio ai più deboli che, dopo gli anni della crisi, hanno risvegliato in me la fede”.
Il servizio e il gruppo…
“Anche il gruppo però è andato via via perdendosi, forse per l’avvicendarsi frequente dei preti o forse per una inevitabile differenziazione di esperienze. Quando è arrivato don Franco non gli è rimasto che raccogliere i cocci, puntando molto sulla nostra formazione spirituale, risvegliando nei pochi rimasti il senso più vero e profondo della fede”.
Se non sbaglio è con don Franco che avete dato vita all’esperienza del Punto Giovane.
“Esattamente. È stato dopo un’esperienza in Sicilia che abbiamo incominciato a pensare di realizzare il Punto Giovane: un luogo di passaggio per una esperienza intensa di preghiera e di fede, nella continuità della vita ordinaria e nello stesso tempo nell’esperienza della vita comune. È in quel periodo che si sono create alcune amicizie spirituali così forti che ancora mi sono di sostegno nella mia vita di prete. ”.
È stata forse questa esperienza del Punto Giovane a farti cambiare idea riguardo ai preti?
“Diciamo che il Punto Giovane è stato il substrato che ha fatto rivivere in me quei sentimenti e quegli ideali che mi avevano tanto affascinato da ragazzo. Il Punto Giovane mi ha rimesso in carreggiata e mi ha fatto vedere il prete sotto una luce alla quale non avevo mai pensato: la vita comunitaria e missionaria, la possibilità di comunicare la propria fede”.
Ma c’è stato qualche momento particolare, qualche episodio specifico che ti ha dato la spinta decisiva?
“Ricordo un giovedì santo. Anche se con poca fede, avevo mantenuto l’impegno di andare di tanto in tanto a fare visita ai malati della parrocchia accompagnando il prete. Così con don Agostino andai da una signora che per motivi di salute non poteva venire a messa in parrocchia. Mi fermai con lei a lungo, anche per fare una partitina a carte. Quando stavo per andarmene, mi disse: Mi piacerebbe tanto andare a messa per questa Pasqua, ma le mie gambe non me lo permettono. Voglio chiederti un grande favore: vacci tu a messa per me. Ho dovuto prometterglielo e mantenere la promessa. Allora ho capito che il prete può dare molto… quello che altri non possono dare”.
Ho anche sentito parlare di un certo viaggio a Monaco, in bicicletta coi tuoi amici …
“A quei tempi, nel ’95 avevo solo 21 anni, mi piaceva molto andare in bicicletta; mi allenavo anche con una squadra per le competizioni locali. Quel viaggio fu la mia salvezza e potei mettere in pratica un po’ di quell’altruismo che mi era stato insegnato nel gruppo di Pronto Soccorso. Così quando c’era una salita o un tratto di strada più impegnativo, io partivo sparato lasciando indietro tutti gli altri. Ma non lo facevo per sfida, ma per dare sfogo ai miei muscoli. Poi quando avevo raggiunto la cima tornavo indietro soddisfatto e mi mettevo al fianco di chi faceva più fatica, magari dandogli una spintarella o un sorso d’acqua. Fra quelli che tendevano a rimane indietro c’era anche il prete … un certo don Giovanni”.
E così, per aiutare il prete, sei entrato in Seminario.
“Più o meno è così, ma ci ho voluto pensare ancora un po’. Poi però si è trattato di dare un aiuto diverso. Nel tempo del Seminario ho avuto la fortuna di fare brevi esperienze missionarie in Messico e in Albania… La missione era la mia idea forza nella scelta di vita che stavo facendo. L’avevo detto anche al Vescovo, che mi aveva promesso: vedremo. Anche da prete ho fatto esperienza missionarie coi giovani della parrocchia”.
Però, quel ”vedremo” di andare in missione non se n’è più parlato?
“Diventato diacono e prete ho sperimentato subito cosa volesse dire la promessa di obbedienza. Tutto quello che ho ottenuto è stato di andare a Venezia alla facoltà teologica di Ecumenismo per continuare gli studi”.
Allora la tua vocazione si è realizzata a metà.
“No, la mia vocazione è pienamente realizzata anche qui. Ogni mattina mi sveglio con la contentezza di essere prete. Anche qui c’è qualcuno a cui posso dare una spintarella o un sorso d’acqua dalla mia borraccia”.
Prete giovane fra tanti giovani. E se non sbaglio tu sei anche direttore dell’Ufficio diocesano di Pastorale Giovanile …
“Più formale che effettivo. Adesso mi tiene occupato per molto tempo l’intera comunità parrocchiale; però i giovani hanno sicuramente un posto speciale nei miei pensieri, grazie anche alla bella esperienza che si fa all’ex don Baronio. E poi c’è la messa, detta rock, che nasce proprio dalla fraternità dei giovani del don Baronio, straordinaria quotidianità”.
Questa è una bella definizione: la vita come “straordinaria quotidianità” … e non solo per il prete, ma per chiunque ami la vita.
Egidio Brigliadori