Al Teatro dell’Opera di Roma il tradizionale abbinamento “Cavalleria rusticana” e “Pagliacci” nell’interpretazione di Pippo Delbono
ROMA, 15 aprile 2018 – Un tempo dittico inossidabile e amatissimo dal pubblico, ma oggi smembrato nei più bizzarri e talvolta incongrui accostamenti, Cavalleria rusticana e Pagliacci sono andati in scena all’Opera di Roma in un allestimento firmato da Pippo Delbono. Creando un’ideale simmetria rispetto al Prologo dei Pagliacci, a inizio spettacolo, il regista ha fatto una piccola premessa (da non confondere con l’ennesima, e spesso inutile, spiegazione dei criteri di lettura adottati) suggerita dalla necessità di introdurre la propria, anomala, famiglia teatrale a un pubblico – quello operistico – che forse non la conosce. Al centro, dunque, persone: con le loro storie spesso tragiche e dolorose, uomini di carne e d’ossa come recita l’inizio dell’opera di Leoncavallo. Il regista ha così presentato Bobò (attore sordomuto rimasto chiuso quarantacinque anni nel manicomio di Aversa), l’ex clochard Nelson e Gianluca, ragazzo down.
Non era facile applicare le singolari caratteristiche del linguaggio teatrale di Delbono a due opere come queste, ben radicate nella tradizione melodrammatica e appesantite da un considerevole bagaglio retorico, ma il regista – nonostante abbia cominciato da pochi anni a frequentare il palcoscenico operistico – ci è riuscito, dando vita a una messinscena di straordinaria intensità poetica. Del resto, chi meglio di Bobò avrebbe potuto sostenere la croce durante la processione pasquale di Cavalleria? E chi sarebbe stato più adatto – insieme a Gianluca – a materializzare gli uccelli evocati da Nedda nella sua ‘ballatella’?
Un contributo fondamentale allo spettacolo è venuto anche dalla bellissima scena di Sergio Tramonti: una scatola rosso lacca, su cui si aprono tante porte (come una sorta di claustrofobica stanza strinberghiana passata attraverso la destrutturazione di Pina Baush), e dove il coro, spettatore degli eventi alla maniera della tragedia greca, si dispone in modo semicircolare. Il resto è affidato ai bellissimi costumi retrò di Giusi Giustino per Cavalleria o ispirati a Picasso e Chagall per Pagliacci, oltre che alle splendide luci di Enrico Bagnoli.
Un titolo come Cavalleria – che col senno di poi, quando debuttò nel 1890 proprio a Roma, sembrava anticipare tutti i valori in seguito incamerati dal fascismo – viene così asciugato da Delbono e ricondotto al suo primitivo significato drammatico di tragedia, fra le più icastiche: istantanea di una società dove vigono ancora leggi tribali e matriarcali. Al contrario, Pagliacci, opera di due anni successiva, ma assai più raffinata sul piano drammatico grazie a un meccanismo di teatro nel teatro che è quasi un’anticipazione pirandelliana, assume aspetti stralunati e metafisici, impreziositi da bellissimi colpi d’occhio: il livido carro di Tespi su cui arriva la compagnia di attori girovaghi, gli eloquenti movimenti coreografici, certi fulminanti fermo immagine.
Del tutto a loro agio, in questa cornice, si muovono gli interpreti. In Cavalleria si sono imposti la bravissima Anita Rachvelishvili, una Santuzza di notevole caratura vocale e formidabile magnetismo sulla scena, insieme all’Alfio di Gevorg Hakobyan, baritono dall’emissione robustissima, però mai fuori misura. Forse più in ombra Alfred Kim, un Turiddu comunque apprezzabile per lo squillo, e Martina Belli, bamboleggiante Lola. Anello debole sul piano vocale (troppo vistose le disomogeneità), la Mamma Lucia di Anna Malavasi. In Pagliacci è tornato a farsi ammirare Hakobyan, interprete di Tonio, accanto a Carmela Remigio, una Nedda dai suoni non sempre ben sostenuti soprattutto al centro, ma perfetta nel rendere il profilo di una donna ribelle, che anela alla libertà, secondo l’insegnamento ricevuto dalla madre. Canio era Fabio Sartori: nonostante suoni un po’ stimbrati in basso, ha sfoderato emissione morbida e senza forzature in alto; Dionisio Sourbis, nei panni di Silvio, si è rivelato baritono soffice ma fin troppo tenorile; e sempre preciso nei suoi interventi Matteo Falcier, come Peppe. L’aspetto forse più discutibile era invece la lettura di Carlo Rizzi, soprattutto per una certa piattezza dinamica, nonostante un’orchestra in buona forma e che avrebbe consentito molto di più: se nei Pagliacci può essere sufficiente assecondare la partitura, almeno l’Intermezzo di Cavalleria avrebbe richiesto uno scavo maggiore.
A molti, fra il pubblico, avrà dato fastidio la presenza, peraltro discreta, del regista sulla scena: quasi una reminiscenza brechtiana con la funzione di rappresentare uno sguardo “altro”. Il dissenso si è manifestato attraverso malevoli fischi: la sensazione, però, è che Delbono sia riuscito a toccare nervi scoperti, attraverso un modo di far teatro di fronte al quale tanto i loggionisti – preoccupati solo degli aspetti vocali e disinteressati a quelli visivi – quanto i più pretenziosi e modaioli estimatori del cosiddetto regietheater (operazioni spesso concepite solo a tavolino e debolissime in scena) hanno smarrito le loro rassicuranti coordinate.
Alla fine, forse scandalizzando i filologi, è il regista a pronunciare la battuta La commedia è finita!, che invece spetterebbe a Canio: serve a chiudere un arco ideale, cominciato con il prologo di Cavalleria, e a creare una più forte liaison des scènes fra le due opere.
Giulia Vannoni