In una notte riminese del 1812, dopo che le sacrileghe soppressioni napoleoniche avevano sfigurato monasteri, chiese e luoghi di devozione in genere, l’allora Parroco di San Giovanni Battista, Don Baldassarre Quagliati, raggiungeva la chiesa di San Gaudenzo, che sorgeva sulla Via Flaminia, all’altezza dell’attuale palazzetto dello sport, per prelevare di nascosto quanto più poté di ciò che apparteneva a quel sacro luogo.
Tra i beni salvati vi erano dei reliquiari che, da allora, rimasero conservati in un vano nascosto all’interno della chiesa presso la quale era Parroco. Lì riposarono indisturbati fino all’estate del 2012, quando, dopo duecento anni esatti, veniva ritrovata quella cassettina lignea, contenente numerose ossa ammassate alla rinfusa, un sacchettino di juta e un cartiglio, importante documento che avrebbe permesso di attestare l’autenticità di alcune reliquie.
La storia dei resti dei Martiri rinvenuti a San Giovanni Battista è stata raccontata da don Gioacchino Maria Vaccarini, responsabile della Commissione Diocesana per il dialogo ecumenico, durante l’incontro organizzato presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Alberto Marvelli”, dal titolo “L’eredità dei Martiri della Chiesa indivisa del I millennio”.
Prendendo spunto dalle peculiarità e dalle implicazioni della vicenda, è nato un momento di riflessione sui rapporti tra Sacra Scrittura, Tradizione e Magistero, tre elementi, ciascuno con la sua peculiare efficacia nell’economia della salvezza, che formano un’unità inscindibile.
A proposito del culto delle reliquie, il prof. Natalino Valentini (direttore dell’Istituto “A. Marvelli”) sottolinea come sia possibile accostare reliquia ed icona in quanto simboli vivi e visibili dell’Invisibile. In particolare le reliquie, essendo elementi parziali, permettono di cogliere come la frammentazione, nell’ottica teologica, non divida, ma moltiplichi; tali frammenti, non a caso, sono stati posti, fin dai primi secoli, al di sotto degli altari, in quanto segni così potenti da permettere fisicamente di “edificare” su di essi il cuore del culto.
Del concetto di testimonianza e dele sue implicazioni si occupa don Gabriele Gozzi, vicedirettore dell’Istituto: ricordando che il significato del termine greco martyrion è appunto “testimonianza”, precisa come vi sia stato, nel corso dei primi secoli dell’era cristiana, un cambiamento nel modo di leggere il martirio: in un primo momento si veniva uccisi perché Martiri, poi si prese ad essere considerati Martiri perché uccisi. L’accento, quindi, era inizialmente posto sulla testimonianza, poi sulla morte violenta a causa della Fede.
Il Martire è un alter Christus, anzi nel Martire è Cristo stesso che opera. Queste forme estreme di testimonianza suscitarono nei pagani sentimenti che oscillavano dal disprezzo, derivante dall’incomprensione, all’ammirazione, che produrrà non poche conversioni. Mentre la prima comunità cristiana andava organizzandosi, altrettanto facevano, in qualche modo intimoriti da quella forza emergente, coloro che ad essa si opponevano.
Probabilmente ciò che più facilmente saltava agli occhi dei seguaci di quella nuova religione era il rifiuto di considerare lo Stato un valore assoluto e di considerare l’Imperatore, pur rispettandolo come governante, alla stregua di un dio.
Il nuovo stato di cose che si ebbe sotto Costantino, con il celeberrimo editto di Milano del 313, che non solo riconobbe la liceità del culto cristiano, ma che addirittura lo predilesse, non affievolì il ricordo dei Martiri: mentre i loro luoghi di sepoltura divenivano catalizzatori di pratiche devozionali e, di conseguenza, siti per l’edificazione di monumenti che andarono da piccole edicole a straordinarie basiliche, le date delle loro morti presero ad essere ricordate come giorni per celebrarne la memoria e le loro reliquie (dal latino reliquus, ovvero “resto”, “residuo”) diventarono tesori da conservare, in quanto segni dell’intima comunione con Cristo.
Tutte queste tematiche sono ricondotte nella realtà storica del territorio riminese da don Giuseppe Vaccarini, il quale ricorda come diversi tra i primi Santi riminesi furono Martiri: Santa Innocenza e San Gaudenzo, per citare solo i due probabilmente più noti, subirono il martirio a Rimini.
Tre erano i luoghi principali per il culto dei Martiri nella nostra città: il Santuario di San Gaudenzo, la Cattedrale di Santa Colomba e la chiesa dei Santi Pietro e Paolo, che diventerà poi nota come chiesa di San Giuliano. Le reliquie dei Santi venivano conservate nel contesto di comunità monastiche grazie alle quali si formarono centri di devozione popolare. Accanto alla realizzazione dei luoghi di culto, emerse e si sviluppò lo studio delle vite dei Santi. Fonte importante di informazioni circa questi resoconti sarà il cosiddetto “Passionario della Cattedrale” (si intende la non più esistente Cattedrale di Santa Colomba), un lezionario destinato all’uso liturgico, ed ora custodito nell’archivio storico diocesano, di cui rimangono però solo sessantacinque fogli, mentre l’originale pare ne contasse circa quattro volte tanti.
Ma è quel modesto e fragile frammento cartaceo, a cui si faceva riferimento in precedenza, di ben più difficile lettura, quello su cui si è stati invitati a porre l’attenzione. Il dottor Stefano De Carolis, direttore della Scuola di Storia dell’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri della Provincia di Rimini, lo ha amorevolmente custodito e fatto restaurare a sue spese (nella foto, dopo l’intervento): rinvenuto nel reliquiario di San Giovanni Battista, insieme alle ossa poi attribuite a quindici adulti, un adolescente e tre bambini, riporta un brevissimo testo, ascrivibile, per le sue peculiarità ortografiche, agli inizi dell’800, che descrive il contenuto del piccolo sacchetto di juta proprio come resti di Martiri (precisamente si individuano i nomi di Innocenza, Nereo e Achilleo).
I pochi e piccoli elementi ossei, come segmenti di costole avvolti in nastri rossi, insieme a tasselli di mosaico e pezzetti di intonaco, sono tutti elementi compatibili con la conservazione di reliquie.
Filippo Mancini