Iolanta, l’ultima opera composta nel 1892 da Čajkovskij, proposta a Santa Cecilia in forma di concerto con la direzione di Valery Gergiev
ROMA, 11 gennaio 2018 – La cecità fisica che diventa metafora di quella mentale. Sarà forse una lettura un po’ semplicistica, ma il perno drammatico di Iolanta è rappresentato dall’impossibilità di vedere che ha la giovane protagonista, tenuta per volontà paterna all’oscuro – è proprio il caso di dirlo – della sua menomazione. La fanciulla recupererà la vista grazie all’intervento di un medico mauritano, ma a darle la forza per affrontare la prova sarà la potenza dell’amore.
Questa breve opera in un atto, l’ultima scritta da Čajkovskij (1892), ha tutte le caratteristiche della favola a lieto fine, anche se alcuni dei personaggi chiamati in causa sono storicamente esistiti, a cominciare dalla protagonista che è la principessa Iolanda d’Angiò. Il fratello del compositore, Modest, ricavò il libretto da La figlia di re Renato del danese Henrik Hertz: un dramma riconducibile, a sua volta, ad Andersen. Titolo piuttosto raro in Italia, Iolanta è stata eseguita, in forma di concerto, per la stagione sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia, con Valery Gergiev sul podio. Grazie a un’estrema chiarezza d’intenti, il direttore russo ha evidenziato nella sua lettura il debito e l’ammirazione che Čajkovskij nutriva, sul versante formale, nei confronti dell’opera italiana. E, allo stesso tempo, Gergiev è riuscito a far percepire le innumerevoli affinità che legano il compositore alla grande tradizione slava e a Musorgskij in particolare: intenzioni ben evidenti nella risposta ottenuta dal Coro di Santa Cecilia (preparato, come sempre, da Ciro Visco), che ha manifestato una duttilità ancor maggiore dei colleghi strumentisti, ai quali talvolta sembrava mancare quell’idiomaticità necessaria a Čajkovskij, soprattutto in termini di colore orchestrale.
La compagnia di canto era formata da appartenenti alla compagnia del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, di cui Gergiev è direttore generale da oltre un ventennio. Protagonista il soprano Irina Churilova che, nonostante una voce non particolarmente memorabile per timbro ed estensione, è stata nell’insieme una corretta Iolanta, intensa soprattutto nel comunicare la sua scoperta della luce, autentico vertice emotivo dell’opera. Il padre, re di Provenza, era interpretato da Stanislav Trofimov, un basso sempre molto ben risonante anche nel registro più grave. Ricorrendo spesso al falsetto, il tenore Najmiddin Mavlyanov – nei panni del cavaliere Vaudémont, innamorato della fanciulla – è riuscito comunque a essere espressivo nel momento forse più struggente dell’opera: quando chiede in pegno una rosa rossa a Iolanta e si rende conto della sua cecità perché non sa distinguere i colori.
Meglio ancora i due baritoni: spicca Alexei Markov, che con emissione sicura e quasi spavalda ha saputo delineare molto bene la psicologia del duca di Borgogna, promesso sposo della protagonista, ma in realtà preda della passione per un’altra donna; mentre Roman Burdenko, nei panni di medico sciamano, ha sfoggiato mezzi notevoli e ben gestiti, con cui è riuscito a dare grande spessore al personaggio. Rimangono poi ben impresse nella memoria, grazie alla bravura degli interpreti, le figure minori – ma che Čajkovskij pone assai ben a fuoco negli insiemi – del cortigiano Bertrand, dello scudiero Alméric e della balia Marthe: sono il basso Yuri Vorobiev, dalla voce rotonda e ben timbrata, il tenore Andrei Zorin, sempre elegante nei suoi brevi interventi, e Natalia Yevstafieva, capace di fonde risonanze contraltili.
Se da un lato resta il rammarico per un’esecuzione solo in forma di concerto, dall’altro va a Gergiev una speciale gratitudine per aver valorizzato un’opera erroneamente considerata minore. Per la grande modernità dei significati simbolici che Iolanta nasconde, illuminati – ed è poi questo che più conta – da splendide pagine musicali.
Giulia Vannoni