Federico Fellini è probabilmente il cineasta più popolare al mondo, nonostante siano trascorsi venticinque anni dalla morte. Basta entrare nel circuito di twitter per incontrare migliaia di messaggi che lo riguardano o navigare in internet per trovarvi cascate di articoli, indicazioni di convegni o di mostre che lo riguardano direttamente. Come quella allestita in Sudafrica nel settembre scorso, a Pietermaritzbur. In concomitanza con lo Hilton Arts Festival sono stati esposti nel Centenary Centre dell’Hilton College diciannove suoi disegni ed è stato proiettato il cortometraggio di Andrej Khrzhanovskiji, Il cibo nel cinema di Fellini, basato sui disegni dello stesso. Sollecitano questa attenzione il venire alla luce di particolari inediti dei tanti aspetti della poliedrica personalità del regista romagnolo. Non solo regista, ma anche soggettista, sceneggiatore, scrittore, disegnatore. Esordì diciottenne come disegnatore sul “Marco Aurelio”, la rivista satirica più diffusa negli anni Trenta, ideando rubriche, vignette e il ciclo di racconti (Seconda liceo) che rievocano personaggi ed episodi legati alla sua città, recuperati poi in Amarcord (1973).
In effetti Fellini disegnò per tutta la vita. È stato pertanto un evento rilevante la pubblicazione nel 2007 del Libro dei sogni, presso l’editore Rizzoli (recentemente ristampato), a cura di Tullio Kezich e Vincenzo Boarini. Il Libro è stato persino tradotto in cinese e presentato a Shangai. Si tratta del Diario tenuto dal regista riminese dalla fine degli anni Sessanta, su consiglio del suo psicanalista, lo junghiano Ernst Bernhard, sino alla fine degli anni Novanta. Fellini vi registrava i sogni e gli incubi notturni sotto forma di disegni. Li chiamava “segnacci, appunti affrettati e sgrammaticati” ma per gli studiosi il libro è un grande contenitore di tracce che conducono sulle strade della fantasia e delle opere dell’autore. “Sfogliando queste pagine ipnotiche dai colori brillanti, fluisce davanti agli occhi una ‘sfilata cartacea di immagini’ che riemergono come inconsce reminiscenze nei film” (R. Occhipinti) e che ci introducono nel labirinto dell’artista riminese.
Nonostante la nutrita bibliografia nazionale e internazionale su di lui, Fellini continua ad essere studiato. In Italia dopo la monumentale monografia che gli ha dedicato Tullio Kezich (Federico Fellini, la vita, i film, Feltrinelli, Milano 2002), sono usciti saggi e articoli. Tra i più recenti spicca il volume di Franco Miro Gori, Le radici di Fellini romagnolo del mondo (“Il Ponte vecchio”, Cesena). Gori, sammaurese, ha lavorato a Rimini e qui ha progettato e realizzato la Cineteca comunale; ha pubblicato una serie di saggi (a cominciare da quello dedicato ad Alessandro Blasetti nell’ormai lontano 1983) che lo qualificano per le sue competenze. Ha curato, tra l’altro al Centre Pompidou di Parigi (il Beaubourg disegnato da Enzo Piano e da Richard Roger) una manifestazione dedicata a Rimini e il cinema (si veda Rimini et le cinèma: Images, cinèastes, histoires, Editions du Centre Pompidou, Paris 1989). Con Le radici di Fellini romagnolo nel mondo propone un itinerario particolare: seguire nelle sue opere quello che Kezich ha definito “l’eterno ritorno a Rimini e alla Romagna”, un ritorno alle radici che trova espressione nell’uso del dialetto che caratterizza la piccola patria. A questo proposito Gori ricorda quanto disse Fellini intervistato da Walter Della Monica: “Mi sembra che il dialetto sia come i sogni, qualcosa che agisce nel profondo e che quindi è in grado di dirci dell’uomo e del suo ambiente insospettate realtà”. Lo aveva già verificato nel suo lavoro di soggettista e sceneggiatore del film Paisà di Rossellini.
Gori segue l’uso del dialetto in tutte le opere di Fellini, lingua che risuona soprattutto sulle labbra delle donne, “materna ma pure magica, esoterica in 8 1/2” e che si fa decisamene «essoterica», comunicabile a tutti, in Amarcord, risultato di una straordinaria e feconda collaborazione tra il regista riminese e lo sceneggiatore di Santarcangelo Tonino Guerra “garantisce anzitutto la tessitura dialettale che sostanzia il film” ed è “all’origine di un certo clima favoloso” che si può constatare dal fatto che molte situazioni del film fanno diretto riferimento alle poesie o ai romanzi di Guerra o “hanno origine dai suoi ricordi”. Basti pensare all’episodio notissimo di Teo, lo zio matto, che sale su un albero e grida “voglio una donna”, episodio ripreso da una poesia del 1950 (“E gat sòura e barcocal”; il gatto sull’albicocco). “L’intesa tra Guerra e Fellini – prosegue Tullio Kezich – è perfetta grazie alla sovrapposizione della matrice contadina dell’uno alle memorie urbane dell’altro in chiave di reinvenzione comune”.
I ricordi di Guerra e i ricordi di Fellini si incrociano, accompagnati dalla consapevolezza che il mondo rappresentato si sta dissolvendo sostituito dal nuovo emerso dal secondo dopoguerra. Con le parole di Fellini ritornato a Rimini per un premio: “quindici chilometri di locali di insegne luminose: e questo corteo interminabile di macchine scintillanti, una specie di via lattea disegnata coi fari delle automobili…”. Rimangono sì personaggi e situazioni del passato, ma sono lacerti di un mondo che sta forse per scomparire, e con esso l’uso del dialetto. Rimini e la Romagna, per Fellini, rimangono pertanto una dimensione decisiva della memoria che non trova riscontri nella realtà e che vale la pena di ricostruirla, reinventandola, negli studi di Cinecittà, nella finzione cinematografica che trasfigura la realtà, la universalizza e la rende contemporanea a Tokyo come a Parigi. Mi trovavo in questa città, all’uscita in prima mondiale di Amarcord: veniva proiettato anche in un cinema d’essai vicino alla Sorbona. Davanti al botteghino premeva una lunga fila di persone e il gestore prevedeva che il film sarebbe rimasto in cartellone per almeno un anno.
Fellini mette a tema una Romagna dialettale, nota Gori, “che potremmo definire premoderna. A-industriale, borghigiana o borghese (nel senso di «abitante del borgo»,senza riferimenti alla borghesia capitalista). Nonché da un punto di vista, una Romagna, nomen omen, tutta protesa verso la capitale Roma. Che, come spiegano tutti gli esegeti felliniani, è l’altro polo (assieme a Rimini) del suo cinema”. È anche la Romagna che egli avverte aver sviluppato un turismo di massa che favorisce la speculazione edilizia e che va incontro al fenomeno della “riminizzazione”. “Esemplare in tal senso la scena di Amarcord, dove il capomastro Aurelio, il padre di Titta, coi suoi muratori, sta costruendo un edificio proprio sulla spiaggia e invita il manovale-dicitore Calzinaz a recitare una poesia”.
Ben scritto e molto documentato, leggibilissimo, il testo di Gori aiuta a guardare la cinematografia di Fellini dalla parte delle radici, a scoprirne ovunque la presenza e – di conseguenza – a gettare uno sguardo diverso, quello guidato dalla fantasia creatrice, sulla piccola patria che abitiamo, talvolta distratti e inconsapevoli.
Piergiorgio Grassi