Quest’anno a Coriano s’è rinnovata una tradizione che da qualche tempo mancava dal calendario della zona pastorale. Prima si chiamava “Convizio”, ora la si è battezzata “Servivenza”, ma poco cambia nella sostanza della proposta perché l’obiettivo rimane sempre lo stesso: invitare i ragazzi dei vari gruppi parrocchiali a lasciare per qualche giorno le loro case, per immergerci completamente nell’esperienza del contatto con la povertà e l’emarginazione sociale nelle loro più diverse sfaccettature e, soprattutto, con le varie realtà che ne costituiscono l’antidoto.
Lo chiamiamo anche “campeggio invernale” perché ci sono molti elementi che rimandano alla tipica proposta che si vive nelle parrocchie nei mesi estivi.
Anche in questo caso, in effetti, abbiamo scelto una casa in cui andare ad abitare insieme per un po’, ci siamo svegliati la mattina presto, siamo andati a dormire la sera tardi dopo qualche gioco e abbiamo avuto i passi del Vangelo ad accompagnarci; tuttavia a scandire le giornate non sono state le nostre parole scambiate negli incontri e riflessioni in cerchio o le passeggiate nei boschi, ma gli sguardi dei nostri fratelli più deboli incontrati in un istituto o le camminate lungo i marciapiedi della città per andare ad aiutare in una mensa o in un ospedale.
In particolare, quest’anno chi si è iscritto ha potuto scegliere di fare servizio dal 3 al 5 gennaio presso la Caritas Diocesana, la casa di Riposo Valloni, la Comunità di Montetauro, il Centro 21 di Riccione e la Comunità Educante con i Carcerati di San Facondino.
Lo sforzo cui eravamo chiamati è stato chiaro già dal primo giorno, con la lettura del Vangelo del Buon Samaritano: cercare di abbattere il muro dell’insensibilità che ci porta a distogliere lo sguardo davanti alle situazioni di bisogno che sono ovunque attorno a noi e farci avanti di fronte a una mano tesa, se c’è; e anche quando non c’è, tenderla noi per primi, così come il Signore indica.
Se dunque con la Servivenza la richiesta di aiuto ha raggiunto tutti per mezzo delle specifiche realtà anzidette, una volta usciti da quei tre giorni intensi, la sfida più alta sta nell’attingere dalle diverse sensibilità delle realtà incontrate per “farsi prossimi”, guidati da alcune certezze che sono state rilevate fin dai primi minuti insieme: farlo perché “il di più non ci appartiene, ma è di chi manca del necessario”, senza aspettarsi gratitudine; capire che quelle che per noi sono state esperienze di poche ore, per gli operatori sono modelli di vita possibile e, auspicabilmente, esportabile a livello generale; strappare le etichette di dosso agli altri, perché il povero che incontriamo è prima di tutto una persona e, per chi è cristiano, un fratello.
Andrea Carciani