Droni, robotica, stampa 3D; logistica, edilizia e biotecnologia; diagnostica, chirurgia robotica sempre più avanzata ma anche riabilitazione motoria con esoscheletri indossabili. Questi i principali ambiti di applicazione – e gli innegabili benefici – dell’intelligenza artificiale (AI) di cui fanno largamente uso anche le automobili a guida autonoma sviluppate da Google e Tesla. Affascinanti gli orizzonti che continuano a schiudersi, eppure non mancano paure, pregiudizi e fake news. Taglia corto Roberto Cingolani, dal 2005 direttore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT), avanguardia mondiale dell’intelligenza artificiale e della robotica: “Niente demonizzazioni. Qualsiasi tecnologia è di per sé neutra, ma se utilizzata da un imbecille è dannosa”. E con buona pace di chi agita spauracchi, “non esiste tecnologia che possa rendere una macchina intelligente, dotata di autocoscienza e di emozioni, in grado di surclassare l’uomo – avverte il responsabile dell’Istituto con sede a Genova dove è nato, ad esempio, iCub, diventato lo standard di riferimento dei robot umanoidi -. Queste proiezioni lasciamole alla letteratura o ai film di fantascienza”.
Professore, da dove nascono questi timori?
“Non dalle tecnologie in sé ma dal ritmo vertiginoso con cui progrediscono. L’AI è il frutto di macchine di calcolo sempre più performanti che compiono ormai milioni di miliardi di operazioni al secondo. È legata al concetto di algoritmo. Dalla complessità degli algoritmi deriva un’intelligenza artificiale più o meno evoluta. Grazie a modelli matematici accurati che descrivono la realtà, queste macchine possono calcolare con enorme velocità lo sviluppo di un evento. Prevedendo tutti gli scenari e interpretando in divenire il fenomeno diventano quasi predittive. A differenza di quanto avvenuto in passato con la macchina a vapore o il telefono, ora la rivoluzione tecnologica è sempre più accelerata: da inter-generazionale a intra-generazionale. Una iperaccelerazione che non consente una metabolizzazione corretta con il rischio che le applicazioni dell’AI finiscano in mani non esperte e vengano male utilizzate”.
Da una ricerca sul futuro delle professioni presentata al World Economic Forum è emerso che nei prossimi anni l’intelligenza artificiale e l’impiego della robotica porteranno alla creazione di nuovi posti di lavoro ma ne faranno scomparire molti di più. Il saldo sarà insomma negativo…
“È sempre accaduto: l’automazione riduce il lavoro ripetitivo ma, al tempo stesso, crea nuovi profili professionali e nuove filiere produttive. Occorre investire di più in formazione, fin dalla scuola primaria. Le innovazioni fanno parte del nostro quotidiano, ma la velocità di adattamento deve essere elevata e la formazione “continua”, proprio per evitare gap tra individui di serie A e di serie B”.
Quali altri rischi?
“La privacy. Occorre tutelare i dati sensibili, ad esempio quelli sanitari, in modo più accurato. Servono regole ma la riflessione deve andare più a monte”.
Ossia?
“Occorre interrogarsi sul modello di sviluppo che vogliamo perseguire e sulla sua sostenibilità. Crescita non è solo incremento del Pil indipendentemente dai suoi costi; occorre valutare l’impatto dell’uomo e delle sue attività sull’ambiente in termini di produzione rifiuti, consumi di acqua ed energia, emissioni di Co2. Abbiamo un solo pianeta e lo stiamo “consumando”.
Robotica e automazione devono essere impiegate per promuovere una crescita sostenibile all’interno di un modello di economia intelligente e circolare, ottimizzando processi che nel lungo termine abbiano un impatto positivo per tutti.
Ad esempio con macchine intelligenti in grado di produrre dimezzando il consumo di acqua. Crescere meno riducendo l’impatto sull’ecosistema alla fine vuol dire crescere di più. Di fronte a velocissimi cambiamenti planetari occorre una riflessione interdisciplinare che delinei l’orizzonte della scienza e indirizzi lo sviluppo della tecnologia verso una maggiore sostenibilità ambientale ma anche etica, sociale e antropologica”.
Chi farebbe sedere intorno al tavolo?
“Scienziati, tecnici, politici e imprenditori ma anche esperti in scienze umane, filosofi morali e teologi. Ed educatori, quelli che dovranno preparare le future generazioni”.
Nel suo testamento spirituale Steve Jobs ha affermato che non si può prescindere dal connubio “sciences and humanities”…
“C’è bisogno di una visione globale. E ci vuole umiltà: ognuno di noi ha bisogno delle altre figure altrimenti continueremo a guardare ciascuno dal buco della serratura del nostro angolo visuale che però è solo uno spiraglio del tutto.
La partita si gioca qui: intelligenza artificiale e robotica – corpo e mente che messi insieme fanno la macchina intelligente – alleati dell’essere umano per una maggiore sostenibilità che metta al centro sempre l’uomo e non lasci indietro alcuno”.
L’uomo, appunto… Secondo lei c’è il rischio che la sua intelligenza possa essere surclassata da quella di un robot?
“In linea di principio è obbligatorio il risk assessment con l’analisi di peggior scenario per essere pronti a qualsiasi tipo di rischio ma è molto difficile ipotizzare macchine intelligenti più performanti dell’essere umano. Più che dell’intelligenza artificiale, sono infinitamente preoccupato della stupidità naturale. Con una macchina premi un pulsante e la fermi, con chi sta dietro i missili nucleari la vedo più difficile. Premesso questo, il robot decide sulla base di un algoritmo e di una probabilità ma non avrà mai quel complesso sistema biochimico che governa le nostre emozioni, la nostra creatività e imprevedibilità. Le nostre “debolezze” che ci rendono superiori, creativi, geniali”.
Il progresso tecnologico corre più veloce della riflessione etica e della legislazione…
“Sì. E deve continuare a correre, anche più veloce se possibile, ma all’interno di un quadro di riferimento etico-antropologico-giuridico-culturale da definire. Le competenze tecnico-scientifiche non sono sufficienti. Abbiamo bisogno dell’apporto del pensiero umanistico. Credo sia necessaria un’accelerazione della formazione umanistica, etica, politica, antropologica della società che questa tecnologia sviluppa e usa”.
Giovanna Pasqualin Traversa