Riproposta al Teatro della Fortuna di Fano ‘La bohème’ proveniente dallo Sferisterio con la regia di Muscato e la bacchetta di Beltrami
FANO, 1 dicembre 2017 – I quattro amici Rodolfo, Marcello, Colline e Schaunard, che dividono lo stesso appartamento scalcinato, sono dei simpatici sessantottini: non troppo impegnati sul versante politico, ma pienamente immersi nell’atmosfera di quegli anni, dove in tanti rivendicavano la liberazione di energie creative ritenendosi degli artisti. Mimì invece è un’operaia, con il fisico minato dai veleni che forse respira nella fabbrica dove lavora; il caffè Momus è un locale rock e la barrière d’Enfer una fonderia.
La scelta registica di ambientare Bohème negli anni settanta, però, non appare come l’ennesimo tentativo di attualizzare la vicenda di chi crede poco nel libretto e nell’opera: invece, restituisce molto bene un clima sociale, che forse non è proprio quello della Parigi di metà ottocento descritta da Murger (“un socialdemocratico da dopocena”, ebbe a definirlo Engels), ma è certamente abbastanza vicino agli anni della scapigliatura, così come si riflettono nel libretto di Illica e Giacosa per Puccini.
Nato nel 2012 per lo Sferisterio di Macerata, lo spettacolo appena visto al Teatro della Fortuna di Fano, porta la firma registica di Leo Muscato che, con l’ausilio delle scene di Federica Parolini e i costumi di Silvia Aymonino, ricchi di inequivocabili citazioni iconografiche degli anni della contestazione, ricostruisce un’atmosfera assai verosimile. L’andamento è scorrevole: la regia spesso si avvale di spiritose trovate, altre volte enfatizza la desolazione legata a solitudine e incomunicabilità. È il caso dello straziante finale, con Mimì moribonda in ospedale (una conclusione che per certi aspetti si riconduce al libro di Murger), anziché nella soffitta, circondata da solerti infermieri che impediscono a Rodolfo di avvicinarsi al letto; poi, appena morta, la portano via, presumibilmente per lasciare il posto a un altro degente.
Al di là dell’aspetto visivo, La bohème vista a Fano aveva numerosi pregi anche sul piano musicale. La presenza di Matteo Beltrami sul podio dell’Orchestra Filarmonica Marchigiana ha garantito un buon livello esecutivo, grazie a una lettura estranea a qualsiasi sentimentalismo di maniera, capace d’imprimere slancio vitalistico ai primi due quadri e a fornire poi scandagli introspettivi man mano che la storia d’amore tra Rodolfo e Mimì si complica, fino a trascolorare nella malinconia finale, resa con sonorità asciutte, quasi aspre e per questo tanto più drammatiche. Il direttore rispetta anche i desiderata di Puccini, con la banda sul palco alla fine del secondo quadro (il Concerto Bandistico Venagrande), invece della sola musica registrata come talvolta si fa.
A questo bisogna poi aggiungere un cast con alcuni interpreti davvero notevoli, cominciando dalla ventitreenne Benedetta Torre (rivelatasi al penultimo concorso Tebaldi di San Marino), ormai lanciatissima a livello internazionale: bel timbro ed emissione sempre omogenea, ha affrontato il personaggio di Mimì con grande convinzione e sicurezza. Il tenore Azer Zada, uno dei non pochi odierni talenti dell’Azerbaijan, è stato un Rodolfo molto accattivante (seppure portato ad aggredire di spinta la zona acuta) ed espressivo nel comunicare la spensierata baldanza giovanile dell’inizio, così come il doloroso ripiegamento del finale. Molto bravo poi Marcello Rosiello: un baritono solido e di voce ben timbrata, sempre a suo agio nel personaggio di Marcello anche grazie alla varietà dinamica del suo canto. Barbara Bargnesi sopperisce a una certa gracilità vocale con l’intelligenza interpretativa: affronta il ruolo di Musetta con grande verve all’inizio, per trasformarsi via via in un personaggio empatico e sofferente. Roberto Lorenzi era uno spiritoso e capelluto Colline (quasi una sorta di Frank Zappa), mentre Filippo Fontana, pur corretto, si è un po’ lasciato sfuggire le potenzialità di un personaggio solo apparentemente minore come Schaunard. Efficaci senza eccessi caricaturali l’Alcindoro di Davide Filippini e il Benoit Alessio De Vecchis. Qualche problema, invece, l’ha avuto il Coro Ventidio Basso, non ben appiombato ritmicamente – meglio le voci bianche – nel quadro del Caffè Momus, sempre così problematico nella sua giustapposizione di piani sonori.
Alla fine, notevole e meritato successo di pubblico: non è un caso che La bohème sia un’opera fra le più amate a qualsiasi latitudine.
Giulia Vannoni