Lunedì 13 novembre a Rimini prima giornata davvero fredda. Una cappa buia versa acqua a folate più o meno intense su pochi coraggiosi viandanti. Ma in Via Cairoli l’aula Massani è piena di persone attente ad ascoltare Gianni Gennari, editorialista di Avvenire, sul tema Don Lorenzo Milani. Prete ed educatore. Mondadori (Classici dello spirito!) ha appena pubblicato Tutte le opere.
Gianni è compagno di seminario. Due anni al Romano Minore, sei al Maggiore. Poi le nostre strade si sono divise e per certi aspetti congiunte. La sua lettura di don Milani è partecipata e, personalmente, sofferta.
Durante la conferenza più volte un groppo in gola interrompe Gianni, e quando propone la Lettera a Pipetta piange proprio e chiede aiuto ad altri per concluderne la lettura. Sono grato di poter parlare con lui.
Dopo la visita del Papa a Barbiana possiamo parlare di don Milani riabilitato?
“È una visita penitenziale compiuta a nome di tanta parte di Chiesa. Ma ancora non è semplice accogliere un personaggio così scomodo. Ora è più facile dire: ecco un uomo su cui vale la pena modellare la propria esistenza. Ora, nell’apparente fallimento, si può affermare che è stato un uomo riuscito”.
Da cosa nasce l’antinomia fallimento-riuscita?
“Chi vuole essere discepolo di Cristo non può che incontrare in certa misura il fallimento. Lui è stato un grande discepolo di Cristo, grande prete, educatore, credente, grande uomo di Chiesa, intendendo non «il regno dei preti» ma «il regno dei cieli». Azzardo: il regno dei preti si afferma se loro parlano sempre di Dio, il regno di Dio quando essi sono fedeli al Vangelo e alle creature di Dio. Preti che pensano a Dio come loro proprietà, gridano che Dio ama quelli che amano loro e disprezza quelli che loro giudicano, incarnano il peggior ateismo. «Quando i preti parlano troppo di Dio vuol dire che ci credono poco, si riempiono la bocca di Dio ma non riescono a riempirne la vita; la gente sente le parole, ma non vede la vita e non crede». Questa chiesa «organizzazione mondana» che si serve del potere per condizionare le coscienze, ha fatto soffrire don Milani, innamorato invece della Chiesa immersa nel tempo con un messaggio da annunciare, al centro del quale in unico mistero ci sono Dio e l’uomo: questo è Gesù Cristo”.
Gesù Cristo non figura del passato, non solo presente nell’eucaristia, ma mistero unico di compresenza sempre attuale di Dio e uomo?
“Chi non mette insieme Dio e l’uomo non è cristiano. Tanta gente ha avuto e ha la bocca piena di Dio e, tanti altri, la bocca piena dell’uomo. Lo specifico dei cristiani è che mentre si dice Dio si pensa agli uomini e viceversa. La fede in Cristo «entrato nella storia» è la radice di aspetti sconcertanti di don Milani, che lo portavano a parlare quasi mai di Dio: «non si parla della luce, la si vive». La sua scuola è la più sanamente laica e insieme la più radicalmente cristologica: al centro Cristo, che vedeva e serviva nei ragazzi. Nel testamento indirizzato a loro e firmato poche ore prima della morte, scriveva: «Ho voluto più bene a voi che a Dio»”.
<+nero>Per questo agli insegnanti che salivano a chiedergli una didattica e dei programmi da seguire, non dava risposte?
<+testo_band>“«<+cors>Facendo scuola io rendo disponibile l’uomo a dire sì anche al Vangelo<+testo_band>». Ecco il vero perché della sua scuola fatta in modo così inferocito, lunga anche 16 ore al giorno tutti i giorni dell’anno compresi Pasqua e Natale! Da straordinario logico, a chi lo rimproverava perché faceva faticare troppo i ragazzi replicava: «<+cors>Ma come? Li avete tenuti per secoli a pascolare le pecore 24 ore al giorno e non vi sono mai venuti gli scrupoli, adesso vi vengono perché faccio lavorare troppo i ragazzi e li stanco!<+testo_band>» Le «ragioni» di don Lorenzo non potevano tradursi in didattica e programmi”.
Di dove nasce l’idea di una scuola così?
“Dalla «storia del mio Mauro che entrò a lavorare a 12 anni» e dall’impatto con la miseria. Le peripezie di Mauro – sfruttamento, lavoro nero, cinismo, delitti – gli fecero capire che la cosa più importante per lui era liberarsi; volle aiutarlo a prendere coscienza dell’oppressione per far scaturire in lui energie di liberazione. «La cultura vera, quella che ancora non ha posseduta nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola»”.
Perché tanto “freddo” delle autorità ecclesiastiche nei confronti di don Lorenzo?
“Anche Papa Giovanni, che capì don Mazzolari, non capì Milani. Ci sarebbe da scoraggiarsi, ma Cristo ama questa chiesa, peccatrice per i peccati miei, nostri, dei papi, dei vescovi e con le sue miserie cui ciascuno di noi dà il suo contributo… Comunque non è vero che don Milani ha dovuto attendere 50 anni per essere riabilitato. Su Avvenire 25 e 26 giugno ’77, don Silvano Nistri, oggi novantenne presente a Barbiana con Papa Francesco, gli dedicava una lunga rievocazione: «Fu un segno di contraddizione. A 10 anni dalla morte di Don Milani un messaggio da riscoprire veramente». In realtà era da scoprire non da riscoprire, perché non era mai stato scoperto. «I suoi connotati? L’esperienza radicale della fede nell’amore, la passione per una chiesa presente agli uomini, la scelta rigorosa della povertà». Nella stessa pagina, con grande emozione, ho scoperto altro: non ci può essere un sorriso di Dio più sorriso di questo. Il 26 di fianco al servizio su don Lorenzo, una notizia: «Commosso saluto di Firenze al cardinale Florit». Paolo VI aveva accettato le sue dimissioni. Dietro l’annuncio, una storia complessa forse ignorata, ma don Milani c’entra davvero… Florit in una lunga lettera del 5 marzo ’64 era stato inutilmente implorato da don Lorenzo: «Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato, qualcosa di simile all’opera di un pastore protestante, ma io non lo sono stato e lei lo sa; se lei ne avesse avuto anche solo l’ombra del dubbio le correva l’obbligo gravissimo di cercarmi, parlarmi, salvarmi»”.
Perché la Chiesa tante volte tratta così male i suoi santi e profeti da vivi, poi li riabilita quando non ci sono più?
“Don Lorenzo diceva: «Il posto del profeta è la prigione, ma quant’è brutto per chi ce lo tiene!». Ma non capita solo nella chiesa. Ricordi La scoperta dell’America di Pascarella? Per Colombo, caduto in disgrazia, «cominciorno li triboli e le spine», «fu ridotto a girà pe li conventi, cor fijo in braccio, come un affamato!». Quando un uomo di valore è vivo lo portano al macello, poi muore e gli fanno il monumento. «Ma quanno è vivo nu’ lo fate piagne, e nun je fate inacidije er core, e lassate li sassi a le montagne!»”.
Ma la Chiesa avrebbe ben altre ragioni per valorizzare i profeti. È possibile un’inversione di tendenza?
“Voglio continuare a credere, lottare e sperare con buonumore, senza dimenticare che lo Spirito guida questa nostra comunità di fede. Oggi papa Francesco apre strade a speranze nuove”.
Qual è la caratteristica fontale del suo ministero?
“Aver preso sul serio l’affermazione radicale del Vaticano II: la Chiesa è il Popolo di Dio in cammino nella storia. Verità che non stravolge la dottrina. La «perenne attualità» della fede, nei secoli vive cambiamenti culturali, politici, economici e accompagna la storia. Fedeltà e cambiamento. Tema attualissimo di fronte a chi legge come tradimento e abbandono della fede il progetto di «riforma cattolica» di papa Francesco, che comprende una «conversione del Papato»”.
Nuova concezione del papato?
“Conservazione dell’identità di fede e cambiamento del modo di comprenderla sono sostanza del messaggio cattolico. Non è una tesi figlia illegittima del dopo Concilio. Aprendolo, papa Giovanni parlò del cambiamento come migliore comprensione della Parola di Dio ascoltata e vissuta nella storia: stessa fede, che evolve nella comprensione. Una chiara conferma del binomio «perennità» e «attualità» è già chiara – sorpresa! – nell’insegnamento di Pio XII: «All’immutabilità dottrinale, dogmatica e morale della Chiesa provvede il Papato, con la sua evidente perennità; alla mobilità di essa, e cioè al suo avanzare con i secoli restando sempre nel suo secolo, provvede la diversità dei Papi». Oggi il Papa si chiama Francesco, è lui che «provvede»”.
Lino Tonti