Al Festival Verdi di Parma grande successo per l’allestimento non tradizionale di Stiffelio realizzato dal regista inglese Graham Vick
PARMA, 21 ottobre 2017 – Quando si varca il portone del Teatro Farnese l’orchestra ha già cominciato a suonare. Si viene così avvolti dalla musica prima ancora di capire dove dirigersi (non bisogna prender posto sulle gradinate o su comode poltrone, questa volta l’opera si ascolta in piedi) e, nonostante il rumore di fondo, si coglie benissimo l’inizio della seconda parte della sinfonia di Stiffelio, dove sembra che Verdi abbia innestato la marcia indietro, tornando alle formule rossiniane.
Manca il tradizionale palcoscenico: al suo posto ci sono qua e là delle pedane – verranno continuamente spostate per ricombinarsi in modo differente – su cui salgono gli interpreti, mentre non si riesce a distinguere tra coristi, figuranti, tecnici, addetti alla sicurezza e pubblico. Pochissimi gli oggetti di scena e tutti di foggia spartana: un lettino rosa, quello di Lina, perché il padre la vuole perennemente bambina, un tavolo con due sedie, una corona di fiori da porre ai piedi della croce per la scena del cimitero.
Con un’operazione inconsueta nelle rappresentazioni operistiche, lo spettacolo realizzato da Graham Vick per il Verdi Festival abbatte ogni diaframma fra artisti e spettatori, sfruttando uno spazio, come quello del seicentesco Teatro Farnese, perfetto per questo scopo: la grande sala non solo permette gli spostamenti degli interpreti ma lascia ampio margine di movimento al pubblico. Accanto a coloro che ascoltano in religioso silenzio, c’è chi segue il testo del libretto sul telefonino, chi invia messaggi, chi scatta foto o filma intere sequenze, chi parla sottovoce: attività di solito rigorosamente vietate, che però qui appaiono del tutto naturali, senza che nessuno si senta infastidito, tanto più che l’attenzione riesce comunque a mantenersi ben desta. Almeno per quanto riguarda gli spettatori di questo Stiffelio: chissà, invece, se lo stesso vale per i cantanti. Non deve essere stata un’esperienza facile stare lontani dall’orchestra, concentrarsi in uno spazio così dispersivo e a stretto contatto con il pubblico, ma tutti sono bravissimi a non farlo vedere (la preparazione ha richiesto un lungo periodo di prove): persino i coristi, che spesso cantano mescolati fra la gente, riescono a mantenere una buona coesione sonora.
Allo stesso modo di Verdi, che nel 1850 portava in scena la sua contemporaneità (non a caso Stiffelio ebbe parecchi problemi con la censura), anche Vick – con la collaborazione di Ron Howell per i movimenti coreografici e di Mauto Tinti per le scene e i costumi – s’ispira all’oggi, mettendoci dentro di tutto: dalle “sentinelle in piedi” intente a leggere libri religiosi a una rapida incursione delle femen, dai simboli del family day alle riflessioni sul gender e al pestaggio di una coppia omosessuale. Ma, nonostante queste divagazioni, il senso del libretto di Piave (e Verdi forse ci leggeva anche qualche risvolto autobiografico) esce fuori chiarissimo: ad essere davvero importanti sono i sentimenti, che devono avere la meglio sui rigidi principi.
Tutti molto compenetrati nei loro ruoli gli interpreti, a cominciare dal tenore Luciano Ganci, con la sua faccia da buono, che è stato uno Stiffelio (pastore degli Assasveriani) pieno di slancio vocale e comunicativo: capace di trasmettere un’idea di nobile generosità quando – rinunciando alla vendetta – concede il perdono alla moglie traditrice, servendosi della parabola evangelica dell’adultera, mentre tutt’intorno riecheggia la parola “perdonata” sulle suggestive note dell’organo. Il soprano Maria Katzarava è una Lina dapprima spaurita e vittima degli eventi, poi delle pressioni del padre, ma grazie a un sostanzioso registro grave sa essere molto espressiva nel trasmettere la sua sofferenza e il desiderio di riscatto. Francesco Landolfi, nei panni di Stankar, è un genitore conformista, più interessato a difendere la reputazione propria che quella della figlia, tanto da far sembrare l’uccisione di Raffaele come un classico delitto d’onore. Atletico in scena e vocalmente sicuro il secondo tenore Giovanni Sala, nei panni appunto dell’amante Raffaele. Ma bravi anche i comprimari e, soprattutto, il Coro del Comunale di Bologna (si tratta di una coproduzione con il teatro felsineo) per le obiettive difficoltà cui ha dovuto far fronte. Non troppo facile nemmeno il compito dell’Orchestra del Comunale, ben diretta da Guillermo Garcia Calvo, che suonava comunque molto meglio che in altre occasioni. Tra la grande soddisfazione del pubblico.
Giulia Vannoni