“Vita reale – vita virtuale” è il titolo della conferenza che la Zona pastorale “Flaminia” ha organizzato venerdì 22 settembre nella sala Marvelli di via Rovetta.
Coordinate dal gruppo della Pastorale Sociale, le cinque parrocchie hanno proposto il contributo di due ospiti illustri: Mariangela Treglia, psicoterapeuta, ricercatrice cognitivo-interpersonale, esperta di adolescenza e di dipendenze comportamentali e Francesco Schino, sociologo, pedagogista, docente di Scienze umane e sociali, ricercatore nel campo dei bisogni specifici dell’apprendimento.
Ha moderato Simona Mulazzani, Direttore di Icaro TV.
Con l’ausilio di alcuni efficaci filmati, la dottoressa Treglia ha esordito citando la nota frase di Papa Francesco pronunciata nel 2015 a Firenze, in occasione del quinto Convegno Ecclesiale Nazionale: “Oggi non viviamo un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento di epoca ”.
Dottoressa Treglia, può esemplificare, dal suo punto di vista, questo cambiamento?
“La tecnologia ci ha dato e ci sta dando molto. Tutto è più veloce, rapido, mutevole, fluido. Tutto si fa da casa dietro lo schermo, anche il poker. Il panorama del terzo millennio, con la sua fluidità declina chiaramente il pensiero di Bauman, il sociologo polacco che ci ha parlato della società post moderna, caratterizzata da cornici sempre più labili e sempre meno consistenti, come l’uomo che le abita. Mondo virtuale e mondo reale si uniscono. Respiriamo la tecno liquidità, utilizziamo quotidianamente un nuovo vocabolario che appartiene al DNA dei giovani ed è oggetto del desiderio degli adulti e cataloghiamo le persone in base alle loro competenze informatiche”.
Può dettagliare questa distinzione?
“Abbiamo il nativo digitale, espressione coniata da Mark Prensky nel 2001, che si riferisce a chi è nato dopo gli anni ’90: queste persone non prendono appunti, chattano; l’uso dello smartphone non è qualcosa di esterno, ma una estensione del loro corpo. E abbiamo addirittura il mobile born, ossia il nativo digitale di tenerissima età, che sfoglia il giornale cartaceo cercando di ingrandire l’immagine con le dita. Per lui una immagine che non si modifica al tatto è solo un tablet rotto. Non ha ancora capacità verbali, ma sa già come funziona uno schermo”.
E noi adulti come veniamo definiti?
“Noi siamo gli immigrati digitali, abbiamo avuto bisogno del passaporto per entrare in questo mondo tecno liquido, in questo universo comunicativo in cui non siamo nati. Devo dire, però, che ci stiamo integrando: non pensiamo che siano solo gli adolescenti a trascorrere molte ore sul virtuale: su facebook si possono “ammirare” profili scintillanti di mamme, molto più presenti sui social dei loro figli. Infatti, poichè il linguaggio virtuale non lo ha respirato alla nascita, l’adulto vi si è catapultato. Un esempio? Tutti i genitori ormai hanno lo smartphone aggiornato con ogni più nuova applicazione e lo sfoggiano in bicicletta e in fila dal medico. È più probabile la dipendenza da internet di un immigrato digitale che di un nativo, perché vive una curiosità morbosa verso qualcosa che è posticcio a sè; l’adulto si crea una web reputation, come è ben raccontato nella serie televisiva “Black mirror” dove tutto è quotato per essere socialmente riconosciuto: è importante non ciò che sono, ma ciò che faccio. I like, le visualizzazioni: anche io posso diventare famoso”.
Il professor Schino ha impostato l’intervento dissociandosi dall’identificazione fra vita reale e virtuale; per lui la separazione resta netta in virtù di un parametro da cui non si può prescindere. Lo presenta mediante una canzone: “>L’esercito del selfie”.
Professore, perché questa canzone?
“Perché dice una cosa vera: “Mi manchi in carne e ossa”. L’esperienza virtuale fa fuori l’aspetto della corporeità, invece il primo modo con cui noi ci presentiamo a noi stessi e agli altri è il nostro corpo. Ma non c’è bisogno di fare riferimento a internet, perché questo è un filo rosso che unisce l’oggi con l’antichità: per Platone il corpo è semplicemente l’involucro, una gabbia che racchiude l’anima, vera essenza dell’uomo. Abbiamo dovuto attendere il cristianesimo per scoprirne la grande dignità, tanto che anche il corpo risorge. Come posso io essere felice se il corpo non c’è nelle vicende virtuali”.
Quindi all’approccio artificiale manca una esperienza essenziale?
“Esatto. La prima intelligenza che abbiamo sviluppato è l’intelligenza motoria, poi sono arrivate le altre; senza questa come avremmo potuto muoverci dentro il liquido amniotico? È gattonando che il bambino scopre il mondo. Emmanuel Mounier utilizzava un’espressione incredibile, diceva: “Ho bisogno di impellarmi”, cioè di toccare la pelle, di entrare in contatto con qualcuno. E Gabriel Marcel gridava: “Io sono il mio corpo” contro il dualismo di Cartesio che, per prendere coscienza del proprio essere, aveva bisogno di pensare”.
Ci sta dicendo che lì egemonia telematica dei nostri giorni non potrà mai rispondere con completezza al bisogno comunicativo dell’uomo?
“Il corpo è una condizione della conoscenza, come ci ha insegnato Piaget. La conoscenza degli altri mi aiuta a rispondere alla mia domanda di identità. E qui nasce la grande domanda educativa circa l’utilizzo di tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione, tecnologici e non”.
E su questo aspetto i due relatori si trovano d’accordo: la parola “empatia” esprime bene ciò che manca ad ogni più sofisticato mezzo di comunicazione: la necessità di una “connessione” umana con il punto di vista dell’altro, con i suoi limiti che ci richiamano i nostri e documentano il bisogno di tenerezza che sta alla base di ogni efficace intrapresa educativa. Qui sta la chiave di una vera e propria rivoluzione antropologica della quale, anche l’uomo narcisista digitale del terzo millennio è capace.
Rosanna Menghi